126
Mio nonno aveva una 126 verde salvia, un colore che sembrava sbiadito già quando era nuova, ma che io trovavo bellissimo. Aveva tre porte, con i sedili in pelle che sembravano le poltrone di un salotto anni Settanta.
La parcheggiava di fianco a casa, al centro del corridoio di cemento parallelo alla sottile linea di terra con le rose di nonna. C’era il cancello a proteggerla, ed erano i primi anni Ottanta, quindi il nonno non si preoccupava di chiuderla e io, cinque anni e le ginocchia perennemente sbucciate, mi nascondevo lì dentro ogni volta che avevo bisogno di un posto dove scomparire.
Amavo quell’auto perché era piccola, i fanali – occhi quadrati sempre all’erta – mi ricordavano le lenti degli occhiali della mia suora preferita all’asilo, quella che ogni tanto mi passava le liquirizie di nascosto. Quando i finestrini e le portiere erano ben chiusi, i rumori esterni risultavano ovattati. Il volante era sottile, ma quando lo stringevo tra le dita, fingendo di guidare, mi dava un senso di sicurezza. In quei momenti, mi sentivo come all’interno di una navicella spaziale pronta al decollo. O diventavo uno dei concorrenti alla Corsa più pazza del mondo e battevo Penelope Pistop senza bisogno del Diabolico coupé. Quell’auto era la pancia di una balena buona, dove navigare con la fantasia.
Ricordo che un pomeriggio d’estate sfacchinai per ore per caricarci tutti i peluche e le bambole, convinta di dover partire per un lungo viaggio nel deserto. Lo feci di nascosto, era una missione segreta. Così segreta che me ne dimenticai nell’esatto momento che mia nonna mi chiamò per fare merenda con il gelato.
La domenica, di tanto in tanto, i nonni portavano me, mia madre e mio fratello più piccolo di undici mesi a trovare dei lontani cugini a Scortichino, in provincia di Ferrara. Un paese dal nome per me impronunciabile, che non so perché mi ricordava il formaggio molle che odiavo ma che a casa non mancava mai. Soffrivo di mal d’auto, quindi mio nonno andava piano e i tempi si dilatavano all’infinito. Il viaggio per “Stracchino” non finiva mai e stare in tre, stipati nel sedile posteriore dell’auto, era una lenta tortura. Sapevo che eravamo arrivati quando attraversavamo un ponte che mi sembrava sospeso su acque minacciose e poi, percorrendo l’argine, ecco la casa dei parenti emergere da un sottile strato di nebbia perpetuo.
Io e mio fratello giocavamo con i gatti, in attesa del momento che preferivo. Il nonno ci veniva a cercare per dirci che aveva smarrito delle monete in auto. Se lo avessimo aiutato a ritrovarle, sarebbero state nostre. Trovare le cento lire era una festa. Le duecento mi facevano sentire ricca ed euforica. Ovviamente, il nonno le nascondeva prima di partire e quando avevamo esaurito la pazienza di aspettare i grandi ancora persi in chiacchiere usava la carta “monetine”.
Solo da adulta, quando mio nonno è venuto a mancare, ho ripensato alla 126 verde salvia, dal colore che sembrava sbiadito già quando era nuova, ma che io trovavo bellissimo. A come celava monete sotto i tappetini e bastava stringere il volante per sentirmi al sicuro.
© Barbara Baraldi, 2018
Barbara Baraldi è autrice di thriller, romanzi per ragazzi e sceneggiature di fumetti per la serie Dylan Dog.
Ha pubblicato romanzi con Mondadori, Castelvecchi, Einaudi e un ciclo di guide ai misteri della città di Bologna per Newton & Compton. Ha collaborato con la Walt Disney Company come consulente creativa. È inoltre tra i protagonisti di Italian noir, il documentario prodotto dalla BBC sul thriller italiano.
Aurora nel buio (Giunti), primo di una serie di thriller con protagonista la profiler bipolare Aurora Scalviati, è stato finalista al premio Fedeli e si è aggiudicato il premio Nebbia Gialla 2018.
Il suo ultimo romanzo è Osservatore oscuro (Giunti).