PARTITA
Chiudo gli occhi mentre l’aereo decolla. Sento il chiacchierio degli altri passeggeri, il grido di stupore del bambino seduto dietro di me, il pianto spaventato di un neonato. Guardo fuori dal finestrino: la terra si allontana, ogni cosa diventa piccola, sempre più piccola. Il bosco prima così imponente è ridotto a macchie di colore giallo brune, un po’ di verde qua e là; sotto di me la nebbia si alza e si posa come la coperta degli amanti scoprendo squarci di tetti, di strade, di fiumi.
Il rumore è assordante nonostante le orecchie si siano tappate quasi subito. Il mio vicino dorme. Gioco sul cellulare per ingannare il tempo, per darmi un tono, per non essere diversa dagli altri passeggeri che hanno tutti in mano un apparecchio elettronico. Gioco concentrata e ossessiva, come se fosse la partita della vita: tre cubi rossi qua, quattro verdi di là, con cinque ottengo una bomba, con sette una lama. Scoppiano i colori sullo schermo mentre perdo una partita dopo l’altra.
Gioco per non pensare a quella giovane donna coraggiosa che ho lasciato sulla banchina della metropolitana, ai suoi capelli scuri, ai suoi occhi profondi e languidi, alle sue mani leggere, al suo passo sicuro. Gioco per ingannare la nostalgia che già mi assale: tre cubi rossi, cinque blu, ecco la bomba. Esplode. Lo schermo si svuota. Ho esaurito le mosse. Ricomincio una nuova partita.
La penso là, in mezzo a gente sconosciuta, mentre distribuisce i suoi sorrisi gentili. La immagino per strada, al lavoro, nella sua casa accogliente e piccina. Ammiro il suo coraggio, la sua intraprendenza, il suo desiderio di novità e di cambiamento. Invidio i suoi colleghi, i suoi vicini, il suo ragazzo che può averla accanto ogni giorno.
Sopra le nuvole, il sole sta tramontando; sono quasi arrivata. Tre cubi gialli, cinque verdi, sette rossi: la lama, la bomba e i colori sullo schermo schizzano via. Game over.
Ma la vera partita oggi l’hai vinta tu, figlia mia.
© Maddalena Filippi, 2018