Le luci dei fari scivolano sui campi gelati, sui cartelli sbiaditi che mi vengono incontro e spariscono subito, inghiottiti dal nero, sulla lingua di neve sporca che scorre di lato. Intorno, il buio si va facendo meno spesso, si cominciano a intravedere i profili di qualche cascina, i ricami obliqui dei tralicci contro il cielo che stinge.
Il motore ronza adagio, fa il suo lavoro tranquillo, giusto una vibrazione leggera, che si trasmette dal volante appiccicoso alle dita sudate. L’ho sempre avuta, questa mania del riscaldamento a manetta, non so perché, anche adesso ci saranno venticinque gradi. Marta ci andava fuori di testa. Mi guardava con odio represso e sudava, lei sempre intabarrata come un pinguino, tra sciarpe e maglioni.
Niente di che, un dettaglio, in fondo. Una piccola crepa. Una delle tante che mi ha vomitato addosso al momento giusto, con la valigia in mano, prima di sbattere la porta.
Oltre il vetro surriscaldato, il nero sbiadisce in grigio, una lingua chiara inizia a farsi strada dietro le colline spezzate dal guard-rail che scorre piano.
Non ho nessuna voglia di andare più forte, mi lascio sorpassare. Nel retrovisore i fari ingrandiscono in fretta, illuminano per un momento lo scatolone sul sedile di fianco e poi spariscono. Il rombo improvviso di una moto si dissolve nel grigio. Un TIR carico di maiali mi spara addosso un clacson rabbioso prima di spostarsi sulla corsia di sorpasso.
È quasi l’alba e ho sonno. Ormai sono cinque ore che guido. A dire la verità non me ne sono neanche accorto. È l’incazzatura, che mi ha tenuto sveglio. Quindici anni di vita, cazzo. Quindici, mica uno. Quindici anni a sbattermi come un criceto nella ruota, tutti i giorni che dio manda in terra. Dieci, anche dodici ore al giorno, sabati compresi. E anche qualche domenica, quando eravamo sotto inventario. Sempre di corsa, sempre affannato, sempre con la paura di non farcela, di non raggiungere quel cazzo di obbiettivo del mese, di non ritrovare più le mie occhiaie e il mio sorriso di plastica sul pannello dei top ten.
E il sorriso fasullo del capo, e quelle cazzo di convenscion aziendali, allegria finta e coltellate vere. E l’angoscia. E i Prozac. E l’ulcera.
Quella mi resta, però. L’unica cosa, insieme alle cianfrusaglie che ho dovuto sgomberare – in dieci minuti – per lasciar libera la scrivania.
Peccato per la statuina di Laura. È sopravvissuta quindici anni e mi va a scivolare dalle mani proprio oggi.
Ieri.
Com’era orgogliosa quando me l’ha data, in equilibrio precario tra quelle manine allora rotonde e mai troppo pulite, oggi lisce e affusolate, da ragazza degli anni duemila. Doveva essere un cavallo, nelle intenzioni, ma somigliava di più a una pecora incrociata con un tapiro. Mentre ci penso, mi viene fuori uno strano verso e mi ritrovo con gli occhi bagnati. La strada si confonde, non ci vedo più molto bene. Ma tanto non importa, ormai sono a metà del viadotto, le mani sono salde sul volante tiepido. E quando sterzo di colpo contro il guard-rail, le luci là in basso le vedo lo stesso.
©Euro Carello, 2020