Arriva mentre il sole sta andando giù. Cammina adagio, i passi corti e meticolosi di chi non è abituato, uno dopo l’altro sulla ghiaia che scricchiola, la testa finalmente leggera, dopo tanti anni di silenzio e pasticche, in quel posto così bianco. Si ferma un momento vicino alla fontana, lascia correre gli occhi sul vialetto ordinato, sull’erba tagliata di fresco, sulla vecchia che trascina a fatica l’annaffiatoio appena riempito. Passa tra i capelli grigi una mano distratta, segnata di vene in rilievo. Come sempre, ricorda.
Era così piccolo, e quei fiammiferi un gioco così invitante.
La scatola era sporca, incrostata della polvere appiccicaticcia del pavimento di cucina dove l’aveva trovata, nel buio impolverato sotto la credenza, tra un nocciolo di pesca e un Topolino dalla copertina strappata. Ce n’erano tanti, dentro. Erano ruvidi e buffi, con quella capocchia scura. Odoravano di proibito e di strano.
Mentre ricorda, socchiude gli occhi sul tramonto. Lo sapeva che non doveva pensarci. Di colpo, la scena torna a crescergli dentro, gonfia, preme, gli toglie il respiro. In un attimo spaventoso, rivive tutto. Prima il silenzio, nella penombra delle persiane socchiuse; le tende gialline appena mosse dalla brezza spossata di fine estate. Le sue dita maldestre che sfregano. La delusione alle scintille subito morte sulla scatoletta frusta. Poi la vampata.
Lui in piedi in fondo al letto, con gli occhi sbarrati. Le urla che non finiscono mai. E quell’odore, quell’odore spaventoso. Se chiude gli occhi gli sembra di sentirlo anche ora.
Come poteva saperlo, che le lenzuola erano in sintetico.
Strizza gli occhi e stringe i pugni, fermo in piedi nell’ombra stretta e lunga dell’albero.
Basta. È stato tanto tempo fa.
Come diceva il dottore? Non lottare, non resistere, ma accettare.
Calma. Ricorda quello che hai imparato. Respira adagio, profondo. Più profondo. Così.
È finito.
Quando smette di tremare, fissa per un momento la lacrima che si spiaccica in silenzio sulla scarpa impolverata. Guarda stupito la mano che non si è accorto di aver appoggiato alla corteccia rugosa. Alza la testa verso il cielo, guarda il sole tremolare dietro i tetti, poi abbassa gli occhi lucidi alla lapide storta, consumata dal tempo.
Un’edera dispettosa ha coperto quasi tutto il nome, ma la foto no. Resta immobile per un lungo momento, senza respirare. Poi, con il fiato lascia uscire un piccolo sorriso. Il primo, da tanto tempo.
Ciao, mamma.
© Euro Carello, 2021
© foto di copertina di Samuele Schirò da Pixabay