Quando l’uomo scende dal letto, la solita molla si fa sentire. Uno schiocco insolente nell’aria già calda del primo mattino. Volta veloce la testa verso il letto. Lei non si è mossa.
È coricata sul fianco, un braccio lungo il corpo, la mano rovesciata con le dita sottili a conca verso l’alto. Lui si ferma un momento a guardarla, uno sguardo lento dai capelli arruffati alle unghie dei piedi dipinte di viola, l’ultimo capriccio. È completamente scoperta, il lenzuolo arricciato le copre soltanto una caviglia.
Si riscuote e distoglie lo sguardo, lasciando scorrere gli occhi nella penombra della stanza che inizia a schiarire. Si muove adagio, godendo la sensazione piacevole del freddo sulle piante dei piedi nudi. Quando apre la porta del bagno, dalla finestra spalancata un refolo vagamente fresco gli rizza i peli delle braccia. Si sciacqua a lungo la faccia, assaporando il brivido che gli provoca l’acqua fredda, poi si asciuga adagio, tamponando la pelle a colpetti leggeri con l’asciugamano a fiori gialli e rosa. Un asciugamano da donna. Come la casa, del resto.
Anche quando lui abitava ancora qui, se non si andava a frugare dentro gli armadi, l’unico segno di presenza maschile stava nella pipa rovesciata nel portacenere, nelle briciole di tabacco semicarbonizzato sul cristallo lucido.
È sempre stata una casa decisamente femminile. Dalle tendine fru fru al giacimento di vasetti e barattolini nel bagno, al poster con gli angioletti.
Adesso, poi, è solo casa sua, è libera di fare come vuole, come non manca di ricordargli. Anche ieri sera.
Strano, che sia andata com’è andata.
Inizialmente si è stupito, quando lei ha finalmente ceduto e accettato di vederlo ancora una volta. L’ultima, come si è premurata di mettere subito in chiaro. Per chiarire una volta per tutte. Come se ci fosse ancora qualcosa da chiarire, dopo il casino di sabato scorso.
Che ne sapeva, lui, che per il suo compleanno aveva invitato a cena quel tipo grasso.
Non è grasso, è ben piantato. Gli sembra ancora di sentirla difenderlo, con le labbra strette e i pugni chiusi.
Ben piantato.
Quando lui è entrato in casa – con le sue chiavi, com’è logico, e il mazzo di rose in mano – se l’è trovato davanti tutto nudo, proprio in mezzo all’ingresso, tra il portaombrelli e il mascherone africano. Stava andando in bagno. Dopo che aveva… che avevano…
Non riesce neanche a pensarlo, però ce l’ha piantato nello stomaco e non riesce a tirarselo via, neanche col whisky e le canne. Anzi, gli fanno tornare in mente tutta la scena, come in un b-movie, ma al rallentatore.
Lei è schizzata fuori dalla camera da letto nuda com’era, gli occhi spiritati e le tette che ballonzolavano. E il tipo lì in piedi che lo stava a guardare a bocca aperta, con la pancia floscia e il coso pendulo, prima sbalordito e poi incazzato.
Come se fosse lui, quello che si doveva incazzare.
Lei non urlava neppure. Stava lì ferma e lo guardava. Con odio.
E sibilava come ti permetti.
E ringhiava avevamo stabilito che avevo bisogno di stare un po’ da sola.
Da sola.
Ovviamente ha cambiato la serratura. Così ieri sera lui ha dovuto suonare per entrare. Nella casa dove hanno abitato insieme per due anni.
Insomma, sembrava tutto finito, e basta. Invece, ieri a sorpresa ha detto di sì, quando lui le ha proposto di vedersi. E dopo…
Allunga un’occhiata alla schiena nuda di lei, allungata immobile sul lenzuolo stropicciato.
Certo ha ben motivo, di essere stropicciato. Mentre sogghigna, scova nella borsa la macchina fotografica. Se dev’essere così, se questa dev’essere stata l’ultima volta, vuole un ricordo da conservare. Non potrà più avere l’originale, avrà almeno un corpo in carta lucida, 20 per 30.
Si avvicina adagio al letto, prepara la macchina. Senza flash.
La luce dalla persiana socchiusa frammenta il corpo di lei in losanghe sbilenche. Si insinua nella piega del ventre fino all’ombra scura del pube, segue la curva del fianco, illumina trionfale la metà superiore del seno, la protuberanza morbida del capezzolo. Gli occhi sono quasi del tutto coperti da una ciocca ribelle, la bocca semiaperta rivela il rosa tenero della lingua. È bellissima.
Si accuccia e comincia scattare.
Prima la figura intera. Davanti. Di dietro. Di tre quarti. In prospettiva, a partire dai piedi.
Poi, i particolari. Usa il macro, come per un fiore raro.
La superficie appena rugosa del capezzolo. Una sezione della curva del seno. L’incavo delle natiche e quella sporgenza che un secolo fa chiamavano ridendo la sua coda. Il lobo tenero dell’orecchio con il foro dell’orecchino. La ciocca di capelli sbieca sull’occhio. La fossa dolcissima dell’ombelico. I riccioli neri che emergono sfrontati dalla piega dell’inguine. Per ultimo, i polpastrelli rovesciati, indifesi come boccioli sul lenzuolo verde chiaro.
Adesso ha gli occhi lucidi e gli tremano le mani, deve smettere.
Si alza, chiude gli occhi, tira un respiro lungo. È ora di andare. Si riveste in fretta, senza far rumore, solo il fruscio leggero della camicia.
Sul comodino, il bicchiere ha ancora un fondo ambrato di whisky. Tenendolo con le nocche, tira fuori di tasca il blister vuoto delle pasticche e lo appoggia di fianco, che si veda. Ora la luce della finestra arriva agli occhi sbarrati, alle labbra immobili, senza respiro. Per maggiore sicurezza, l’ultima cosa che fa, prima di avviarsi alla porta, è passare in cucina e aprire le manopole del gas.
©Euro Carello