Sto mettendo in ordine gli scaffali del negozio, quando succede. Non che ne avessero bisogno: è solo che quando sono depresso devo tenermi occupato in qualche modo. Qualsiasi modo. Per consolarmi, mi dico che non sono più arrivato al livello di qualche anno fa, quando mi ero ridotto a raccogliere tutti i pezzi di spago e filo elettrico che trovavo, avvolgerli per benino e catalogarli per lunghezza: 23 centimetri, 18, 49… una signora nevrosi. Rispetto ad allora, sistemare barattoli e scatolette due centimetri più in qua o più in là, in ordine di altezza e di colore, tutti con l’etichetta rigorosamente a vista e con la stessa distanza l’uno dall’altro, tutto sommato mi sembra un progresso.
Sto valutando se lasciare tra un barattolo e l‘altro un centimetro o solo cinque millimetri, quando colgo un movimento riflesso nello specchio, come un improvviso calo di luminosità nella luce che viene dalla vetrina. Eppure mi pare di averla chiusa, la porta, e di aver anche appeso il cartello chiuso con orario incorporato. Così, tanto per non smentire il mio costituzionale pessimismo, subito penso a una rapina. Il quartiere è quello che è, qualche caso di tossici con taglierino che mirano all’incasso per pagarsi la dose, nell’ultimo anno c’è stato. Penso che non ho niente per difendermi, penso quanto saranno incazzati nello scoprire che in cassa ci sono sì e no venti euro, poi mi volto e la vedo.
Considerato che sono passati tre anni, non la trovo cambiata. Ha mantenuto la frangetta da ragazzina, che nonostante i quaranta suonati, le sta ancora bene e non stona. Deve aver fatto qualcosa ai capelli, hanno una tonalità più sul castano rispetto al suo biondo naturale.
Mentre registro un’accelerazione nel ritmo cardiaco, un seccarsi improvviso della gola e un brivido che mi scorre dalla spina dorsale alla nuca, mi sforzo di ignorare la dimostrazione inequivocabile che mi assale per quel biondo naturale. Con annessa visione di lenzuola stropicciate, luci soffuse e sigaretta del dopo fumata metà per uno, come di prammatica.
Strizzo gli occhi, trattengo il respiro, conto fino a tre, ma quando li riapro è ancora lì.
E mi sorride.
Senza che lo decida coscientemente, mi parte in automatico l’esame generale.
Sul polso sinistro ha la consueta dotazione di braccialetti tra l’etnico e il casual. Niente orologio, li ha sempre detestati, per sapere l’ora usava me. O tutt’al più, se non se l’era dimenticato da qualche parte, il cellulare. Anche se sapere che ora era non è mai stato un suo problema. Il suo ritardo medio agli appuntamenti – quando se ne ricordava – viaggiava tra mezz’ora e un’ora e mezza.
Ha le unghie con lo smalto blu, un vezzo che non ha perso. Niente rossetto. E nessun anello. Neppure una fede, mi dico con immotivato e patetico sollievo. In compenso, le pendono dalle orecchie due orecchini di ambra che mi danno uno scossone ulteriore al cuore. Perché sono quelli che le ho regalato per il suo ultimo compleanno. L’ultimo con me, voglio dire.
Mentre questi pensieri mi si accavallano in testa, credo di aver assunto una discreta posa da idiota. Mi rendo conto di avere la bocca aperta e di aggrapparmi con forza al bancone, neanche fossi su una barca in un mare agitato. Ma forse è proprio così.
Quando lei si muove e fa un passo verso di me, d’istinto mi sposto all’indietro e vado a sbattere contro lo scaffale. Lo capisco, prima che dal tintinnare dei barattoli, dalla fitta alla schiena in corrispondenza del ripiano, che mi ha beccato proprio sulla spina dorsale.
A questo punto le scappa un risolino, che tenta invano di nascondere con una mano. E parla.
– Che fai, scappi? Mica voglio farti del male.
La guardo e penso che, in realtà, del male me ne ha già fatto, sparendo nel nulla una mattina di novembre, senza una parola o un messaggio, mentre la pensavo a comprare le sigarette.
Io resto congelato nella mia posa da idiota, lei piega la testa di lato in quel suo modo buffo e mentre sorride mi parla di nuovo.
– Beh, dimmi almeno ciao!
Con molta buona volontà, il verso che mi esce dalle labbra secche credo possa essere interpretato come un ciao. Cerco di non guardarla negli occhi, ma non ci riesco. Così mi incazzo con me stesso e mi esce un ringhio.
– Cosa vuoi?
Aggrotta per un momento la fronte, stringe appena gli occhi – sì, sono castani, me li ricordo: nocciola, li chiamavo io – poi decide di non raccogliere, schiude un po’ le labbra e tuba:
– Non mi chiedi neanche come sto?
– Lo vedo, come stai – articolo a fatica, lucidando un vasetto che non ne ha nessun bisogno.
– Sicuro? Dice lei con aria sbarazzina.
E mentre lo dice, schiude le falde dell’impermeabile giallo canarino e scopre un bel pancione sui sei-sette mesi.
Mi ero incantato sui suoi occhi, altrimenti l’avrei notato prima. Ma mi hanno sempre fatto quell’effetto: mi calamitano e non riesco a staccarmi. Così mi sono fermato a quelli e al viso. E alle mani. Che adesso sono appoggiate morbide sulla curva tesa del ventre, in una carezza protettiva.
Evidentemente, la fede non era necessaria. O non la porta, o non si è sposata. Magari ha deciso di fare un figlio (una figlia?) da sola. Non mi stupirebbe: è sempre stata una tosta.
Lei intanto mi guarda. Sembra incuriosita, spia la mia reazione. Lascia passare qualche secondo, poi sbotta.
– Beh, non dici niente?
– Congratulazioni, mi esce fuori strozzato. Geniale. Nobel per l’originalità. Ma considerato la tempesta che ho dentro, è il massimo che posso fare.
– Sono passata di qui per caso, la mia ginecologa è dietro l’angolo. E ho deciso che dovevo dirtelo.
Ha deciso che doveva dirmelo.
Che aspetta un bambino.
Solo questo.
Non: che cosa ha fatto negli ultimi tre anni, se ha un lavoro fisso, se le hanno finalmente fatto un contratto serio, se ha cambiato casa. Se ha poi continuato con lo yoga o ha lasciato perdere. Se è stata felice. Se si è sentita sola. Se il suo nuovo compagno (marito?) è un po’ strano – come me – o è uno giusto. No, questo no. Se ci fa un figlio, è uno giusto. Sempre che ci sia.
Di colpo ho la gola secca, le tempie che battono un basso veloce, lo stomaco attorcigliato.
Lo so, che non ho nessun diritto, che è una scelta sua. Però mi sento a pezzi, è come se mi fosse caduto addosso un masso che mi schiaccia e non mi lascia respirare. Ripenso a quando parlavamo di farlo noi, un bambino. Stringo i denti e ingoio a forza tutte le domande che mi ingorgano la gola. La smorfia che riesco a tirare fuori spero somigli a un sorriso.
Lei sembra non accorgersi del terremoto che ho dentro. Una volta, le bastava un’occhiata per capire se ero teso, triste o solo stanco. Adesso spazia tranquilla con gli occhi tra gli scaffali, il bancone, la tenda di perline che porta al retro, i volantini allineati precisi sul legno chiaro. Erano tre anni che non vedeva il negozio. Non che sia cambiato molto.
Sembra voglia aggiungere qualcosa, ma poi ci ripensa. Mi guarda negli occhi e sorride, mentre mi fa ciao e butta lì un a presto, con la mano già sulla porta. Poi si ferma e aggiunge:
– Tutto a posto, tutto perfetto, tutto in ordine, come sempre.
Sì, tutto in ordine, come sempre.
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