Maria Salinelli, 3.05.1915-30.03.2010
Ci siamo quasi, pensò, e con gesto leggero sistemò le pieghe della gonna che le ricadevano sulle gambe magre e gonfie allo stesso tempo.
Nervosa?
No.
Indispettita, leggermente.
Si guardò attorno per accertarsi di non aver dimenticato nulla: le piaceva essere precisa e meticolosa, ai limiti della pignoleria.
Odiava la sciatteria e su di sé non sopportava il minimo dettaglio fuori posto.
Battè un piede con impazienza.
Risentita. Ecco come si sentiva. Era ri-sen-ti-ta.
Perché alla parola data non si dovrebbe mai venire meno e per tutta la vita significa per tutta la vita.
E quel 14 febbraio del 1942 se lo erano ripromessi solennemente: per tutta la vita.
Carta zucchero. Ancora si ricordava il colore del suo vestito: color carta zucchero.
Nella realtà autarchica e contadina in cui viveva non c’era spazio per i vaporosi abiti nuziali bianchi di seta e organza. Un buon abito che avrebbe riutilizzato più volte era quello che ci voleva per lei.
E, modestia a parte, quell’abito le stava decisamente bene. Perché lei i vestiti li portava con naturale eleganza, dall’alto del suo metro e cinquantasette centimetri. La più alta delle sue amiche, non per dire. Per tutta la vita e poi lui, di punto in bianco, se ne era andato, senza una parola di addio né di arrivederci.
E no, pensò, non si agisce così, non si sparisce così senza preavviso né giustificazioni.
Ci si era fidanzata malgrado lo scetticismo di sua madre, che la prendeva amabilmente in giro per essersi innamorata di quel nanerottolo.
Ci si era fidanzata e lo aveva sposato, attendendolo per dieci anni, dieci interminabili anni in cui il re e il duce glielo avevano preso, sbattendolo in giro per l’Italia, per l’Europa e perfino in Africa.
Lui le scriveva una lettera al giorno, lei un po’ meno perché a scuola non era mai stata molto brava e si era fermata alla quarta elementare, passando dai banchi alla terra da lavorare.
Lui invece ci sapeva fare con le parole, con le parole e coi numeri.
A ballare no, era proprio negato e questo era stato un cruccio per una ballerina come lei, che vinceva tutte le gare del paese.
Ma con le parole, ripensò con un sospiro, ci sapeva proprio fare.
Per un intero anno non aveva saputo più niente di lui: né dove fosse finito né se fosse vivo o morto.
Mentre la storia scriveva pagine di inaudita crudeltà, lei viveva in un limbo di paure e incertezze, ma senza perdere la speranza.
Era nata nel 1915: non l’aveva sfiorata la spagnola, era sopravvissuta alla grande guerra e al ventennio, avrebbe superato anche questa ennesima follia dell’umanità malata.
E così era stato.
La storia glielo aveva restituito un paio di mesi dopo la fine della guerra e lei aveva ripreso in mano le redini della loro vita.
Perché lui era un ottimo marito e sarebbe stato un buon padre, lavoratore, accudente nei confronti suoi e della bambina ma, diciamolo, quella che in casa comandava, in fondo era lei.
Ancora uno sguardo attorno: era pronta e tutto era disposto come doveva.
Registrò con fastidio il vociare attorno: le chiedevano di aspettare, le dicevano di attardarsi ancora un poco.
Gentili, pensò, gentili ma molesti.
E poi non capivano. Non capivano che dopo 27 anni passati lontani era giusto che si rincontrassero.
Ancora una volta e questa volta, davvero, per sempre.
©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)