Ho avuto una pessima idea: accettare un appuntamento. Ma non uno speed date, che mal che vada dopo qualche minuto cambi tavolo e giochi un’altra mano. No, un appuntamento a cena.
Mentre gioca la mia squadra preferita.
E lei, minuta, carina, bionda e spigliata come piace a me, gli occhiali dalla montatura verde dietro ai quali mi inquadrano un paio di occhi blu vivaci e indagatori, so che mi studia, sa un sacco di cose sui gesti del corpo che rivelano inconsciamente cosa pensi, mi guarda le mani e come le muovo, deve avere la vista a raggi X perché sembra accorgersi quando incrocio le caviglie sotto il tavolo o rilasso le gambe, scova nel mio sguardo quello che non le dico, e poi mette insieme tutti i dati meglio di quegli algoritmi che ci consigliano cosa vedere perché sanno già cosa vogliamo cercare.
Dio, sembra un esame. Un esame dentro a un incubo. Ma lei mi piace, per cui no, non può essere un incubo. Sotto esame però mi ci sento. Mi sudano anche le mani per la tensione. Dieci minuti dopo sento qualcuno che grida nell’altra sala, quella della televisione, dev’essere per un gol e non so chi ha segnato. O noi o loro. Ma intanto siamo io e lei. Che mi osserva.
Aspetta che guardo il telefono. Quasi mi incita a farlo. Su, dai, lo so che lo vuoi. Sbloccalo con il tuo viso, leggi le notifiche. Guarda chi ha segnato. E magari rispondi a chi ti scrive. Fallo, se hai coraggio. Mentre sono davanti a te.
Ma io resisto. Cosa vuoi che sia un gol in una partita di calcio? Sono nervoso, cambio posizione sulla sedia come per evitare una spina, lei me lo fa notare arcuando un sopracciglio con un sorrisetto malizioso, una maestra che ha colto in fallo uno studente distratto. Però poi si mette a ridere, mi chiede scusa, dice che fa sempre così, non ci può fare niente, mette le piccole mani avanti, poi mostra i palmi per rivelare che non mi nasconde niente, né armi né soluzioni. E poi, quando il ghiaccio è rotto e salpiamo lentamente insieme, mi spiega un sacco di cose. Alcune le sapevo già, ma non come le spiega lei.
Torniamo indietro di qualche giorno. Io faccio l’investigatore privato, quelli a cui ti rivolgi se hai un problema: e io di solito ci riesco, a risolvere i problemi. Lei è una hacker, e l’ho incontrata perché dovevo trovare chi aveva, per l’appunto, hackerato il sito della persona che mi ha incaricato. Una storia lunga che si chiude con un riassunto breve: dovevo incolparla e poi alla fine ci sono uscito a cena.
Che casino che ho fatto. Simile al casino che mi fanno gli occhi come i suoi.
Oh, ma è stato un lavoretto da niente, mi dice. Come quando ho aperto la macchina senza chiavi. E sorride sempre così, come se le labbra disegnassero una mezzaluna che sembra brillare di una luce magenta, quella del vestito che indossa e del rossetto che l’accompagna.
Dopo che abbiamo conversato per un po’, il tempo di fare un altro giro di Vodka Martini, mi dice: tu non sembri nomofobico. Devo aver assunto un’espressione buffa, tipo quella di un lemure smarrito, e lei scoppia a ridere e poi si sente in dovere di chiarire quello che non ho capito.
«Non hai paura di perdere il telefono» mi dice, come se spiegasse a un bambino come fare le addizioni con le dita. «E non hai nemmeno la FOMO.»
«La… FOMO? Be’, non saprei…» Mi sento un perfetto imbecille, come quando gioco a Trivial Pursuit e il mio segnapunti rimane vuoto come il mio conto corrente quando nessuno ha dei problemi che posso risolvere. «Ho fatto delle vaccinazioni da bambino. Forse c’era anche quella.»
«Ma no! FOMO non è una malattia! Oddio, in parte lo è, ma non è una di quelle malattie tradizionali. Vuol dire Fear of Missing Out. Paura di perdersi qualcosa nel mondo solo perché non ti colleghi a Internet. È pieno di gente così, sai? Scrollano i loro feed tutto il tempo alla ricerca di notizie, di like, guardano i reel…»
«Aspetta un attimo. Scrollano cosa?»
«I loro feed! Le pagine dei loro profili, i contatti. Ma sei finito in questo bar da una capsula del tempo?»
Magari, mi vien da dire. Ma lo tengo per me. Devo aver assunto un’aria da cane bastonato, perché una delle sue piccole mani si appoggia sul mio braccio a mo’ di carezza. Quel tipo di carezza che si fa a un cane, per l’appunto.
«Se ti può consolare, è normale per quelli della tua età non conoscere tutti questi termini.» Quando mi strizza l’occhio, capisco che il suo vero intento non è consolarmi, ma prendermi in giro. «Meglio così. Se non sei ossessionato dall’iperconnessione, non ne resterai infossicato.»
«Volevi dire intossicato.»
«No, no. Volevo dire proprio questo. Infossicato. Accade quando l’enorme quantità di informazioni a cui attingiamo in rete riduce la nostra capacità di attenzione. Gli utili idioti versione due punto zero» fa lei, e sorride compassionevole al mio stupore. «Quelli che gli archeologi del futuro troveranno fossilizzati con un cellulare in mano e la testa china su uno schermo. Ci pensi? Che brutta immagine daremo di noi ai nostri eredi.»
Sto per dirle qualcosa che vorrebbe essere appropriato, e magari pure divertente, ma sento gridare ancora nell’altra sala, e non so se stiamo perdendo o vincendo. Cerco di capire se riconosco il nome del marcatore, un’imprecazione contro qualcuno degli avversari o dei nostri, mi aggrapperei al minimo indizio pur di sapere quello che tutti gli altri uomini in questo locale sanno e che sono l’unico a ignorare. Basterebbe guardare il telefono, c’è quell’applicazione che ti dice i risultati in tempo reale, oppure quell’altra dove posso vedere le partite in diretta e… quasi le chiedo se non deve andare in bagno, anche solo per cinque minuti, tanto i piatti che abbiamo ordinato arriveranno con calma: avrei il tempo di guardare le azioni principali, leggere i commenti sulla pagina Facebook della mia squadra, tifare in diretta per il trionfo o per la rimonta… arrivo persino a desiderare di deprimermi per la noia o la sconfitta.
Mi basta solo sapere il risultato.
Sento il telefono che vibra. È arrivata una notifica. La mia attenzione viene rapita da quella vibrazione rapida, ripetuta, tre segnali uno dietro l’altro, quel ritmo che ascolto molto più spesso del battito del mio cuore, quella che mi anticipa qualcosa che devo andare subito a vedere prima che arrivi un’altra notifica, prima che chi l’ha scritta stia già pensando ad altro, oppure a un altro.
Lei mi sta guardando. Lo so. Sa che la trappola è lì, sul tavolo accanto al mio braccio sinistro. Lo schermo si è persino illuminato. Vedo la notifica, che mi chiama. Dentro magari c’è un link. E se mi conduce all’interno di un social, poi guarderò cosa c’è dentro, mi ricorderò del post che ho messo qualche ora prima, ci sarà un commento a cui penserò prima di rispondere per non scrivere la prima cosa banale che mi viene in mente, e poi mi ricorderò della pagina che apro sempre, il giornale con le ultime novità, e leggerò il titolo di un film, andrò a vedere la recensione, guarderò Wikipedia per ripassare la carriera degli attori, e mi ricorderò di un altro film, di quella colonna sonora che mi piaceva che poi cercherò su YouTube, e se mi piacerà come ricordavo l’aggiungerò alla mia lista di Spotify, quella che uso per la palestra oppure quell’altra che uso quando voglio rilassarmi a casa, e magari mi verrà in mente di comprare quel film, lo cercherò su una piattaforma oppure su un’altra, e allora mi ricorderò che ho qualcuno davanti a me, e le dirò “l’hai visto anche tu?” e lei mi dirà “Cosa?” e io le dirò il nome del film, e lei mi dirà “no”, oppure “sì”, e se le piacerò mi dirà “perché non lo vediamo – o lo rivediamo – insieme. Da te, perché da me c’è la mia coinquilina che è sempre in casa, e poi così vedo casa tua, e so che starò bene, perché con te non si può stare che bene.”
Così mi piacerebbe che dicesse, ma non è il suo caso.
Lei mi guarda mentre mi sono perso nei miei pensieri. Devo sembrarle una specie di orso goffo che ha sollevato una zampa sopra una tagliola aperta e poi è rimasto lì, immobile, distratto dall’odore del miele o dall’immagine di un sito che lo vende. Nel frattempo, devo aver sbloccato inavvertitamente il telefono con il mio volto, e quando me ne accorgo lo metto sul tavolo lontano da me. Quasi come per dire che non è colpa mia, è la tecnologia che fa tutto da sola.
Mi dice che quello che stavo per fare si chiama phubbing. Accade quando ti immergi nel tuo telefono dimenticandoti di tutto quello che ti circonda. Meno male che non l’hai fatto, mi dice. Sembra sollevata. E sembra anche che covi qualcosa che la intriga molto. Comunque la tua squadra vince, aggiunge.
So che si aspetta che mi alzi e vada a vedere nell’altra sala. Forse lo fa apposta per mettermi alla prova. Oppure lo fa perché così può guardare il suo telefono: ma mentre ci penso capisco che è solo una giustificazione. E così, con un’espressione di stolida felicità stampata in faccia, vado.
Ma lascio il mio telefono sul tavolo. Per farle capire che sì, mi piace il calcio, ma sono diverso dagli altri. Sì, sono diverso. Ho il colesterolo un po’ alto, sono allergico al polline, ma non ho la FOMO o il phubbing o come si chiama.
E poi so fidarmi delle persone, mi dico mentre entro speranzoso nella sala accanto.
Sul grande schermo piatto in fondo vedo un campo verde, i nostri e gli altri, c’è gente che urla ma io aguzzo la vista per vedere il risultato, e in bilico tra la gioia e la delusione sento un’altra voce dentro di me, di solito la più saggia e per questo la meno ascoltata, che mormora qualcosa.
Ci metto sempre un po’ a capire, e questo è uno di quei problemi che non so risolvere.
«Lei è una hacker» mi dice la voce, mentre leggo il risultato. «E tu sei un idiota.»