VIOLENCE
Con i pugni stretti nelle tasche non puoi sparare con una pistola.
Il cuore è un tamburo che batte a un ritmo costante. Sento i miei passi, le suole di gomma che si appoggiano sull’asfalto freddo. Ogni respiro che faccio è un’ammissione di sconfitta.
Aspetto la pioggia e tutte le tempeste che il cielo rovescia sulle persone, ma non guardo in alto. Perché in alto si guarda per ammirare, per una preghiera o una bestemmia. Il cielo se ne frega di dove ricade la sua furia. E nemmeno a me importa.
Sono un nome affondato in un pozzo di tenebra. Le cicatrici che solcano il volto che vedi sono le mappe di me che ignori. I miei occhi fendono l’aria e intagliano figure, hanno appreso l’arte di leggere quello che le parole non dicono.
Ciò che ho visto è tutto quello che ho. Ricordi che sono fiori cresciuti ai bordi di una strada piena di buche. Ricordi che sono ferite, vite interrotte, vite rovinate. Sfregi inferti al tessuto del tempo.
Dovrei farlo anche adesso. Aprire la giacca, prendere la pistola e fare l’unica cosa che mi riesce bene. Un atto di violenza che è una fine senza appello, un viaggio che non ha ritorno. Tu sei lì, davanti a me. Guardi una vetrina che riflette l’immagine di un morto vivente. Una di quelle scelte che strappano il tessuto del tempo ha condannato te, e portato qui me, in questa strada dove non c’è alcun fiore.
Dovrei continuare a tenere le mani in tasca, perché così non potrei sparare a nessuno. Ma ho una missione, e io sono quello che chiamano per portare a termine le missioni. C’è però qualcosa di strano in quest’aria, lo senti anche tu perché ti muovi. Le note di una chitarra formano un richiamo che rapisce. Alcune forme di bellezza chiamano sottovoce, perché così il caos non si accorge di loro.
Accade che la bellezza calma l’anima in guerra, come una mano gentile che si posa sul braccio. Una ragazza canta, due uomini perduti ascoltano. Un bambino sfreccia accanto a me, e la sua felicità arriva e se ne va come il soffio di un prestigiatore.
Un attimo dopo, sento altro.
Una cicatrice antica che si riapre, la nostalgia di qualcosa che era cresciuto ai bordi di un marciapiede. Dentro le tasche, le mie mani affondano come per scavare nelle viscere della terra. Un nome d’uomo, chiamato dalla voce di una donna, riaffiora dal buio e danza con le note, sfiorando i lembi di una ferita.
Io sono qui. Dove non avrei mai dovuto essere.
© Ygor Varischi, 2018