
Martina, dove sei? E chi lo sa, pensava lei. Una voce conosciuta le arrivava da lontano, esigeva la sua attenzione, Martina, dove sei?
La donna stava fluttuando in un universo perfettamente buio, le stelle erano già lontane, il sole, la luna, i detriti spaziali, tutto perso ormai, non ricordava più che effetto facesse guardare verso la luce.
Era tutto spento. La luce, la sua, era perduta.
Cercò di muovere le mani per esplorare lo spazio che la conteneva, ma quelle non arrivavano a toccare nulla, nessun oggetto. Forse uno spiffero, un soffio, come se qualcuno le passasse accanto. Cercò di
girare il capo per scorgere qualcosa ma non poteva, probabilmente il collo era legato o ingessato, immobilizzato in qualche modo. Le dita, le sentinelle esploratrici che il neonato usa per comprendere il
mondo che lo circonda mentre è nudo e cieco, gli strumenti che usa per portare ogni cosa alla bocca e conoscerla, anche quelle erano perdute, rese immobili, strette dentro solide fasciature.
Martina, mi ascolti? Ascoltava, pensava e ragionava, purtroppo.
Portava ancora il fardello pesantissimo della volontà, quella non si arrendeva mai. Era cosciente, ricordava con amarezza quando era libera, le gambe si muovevano senza incontrare ostacoli, camminava
contrastando la gravità terrestre con una spontaneità che nella sostanza non ricordava più da anni. L’immagine di sé stessa che in piedi, faceva caldo e se ne lamentava silenziosamente maledicendo
l’estate torrida, si strapazzava i capelli appiccicati alla nuca sudata, si specchiava in ogni vetrina per essere sicura che il vestito non aderisse al corpo, svelando chiazze di sudore. Andava dove? Un parco sulla destra, l’incrocio, le auto ferme al semaforo, un odore terribile di smog, mi resterà addosso tutto il pomeriggio, pensava Martina mentre raggiungeva un luogo, un bar, sì, era una caffetteria
dove incontrava abitualmente un paio di amiche. Quella più minuta, una chiacchierona, chi era? Simona, giusto, aveva il vizio di ripetere sempre una certa espressione e tutte ridevamo, solo per farle
piacere. Martina cercò di sorridere ma il viso era paralizzato, bendato come una mummia. Tornò a immergersi in quel ricordo sbiadito che emanava ancora un po’ di luce tiepida. Concentrandosi
poteva scaldarsi un po’, era comunque qualcosa. In caffetteria la aspettava anche l’altra, Silvia, quella alta, moretta, rideva sempre.
Ricordò che la adorava e aveva sofferto in silenzio quando si era dovuta separare da lei, perché Silvia aveva traslocato ed era sparita per sempre. Una fitta appuntita la sorprese, non ricordava di aver
provato tanto dolore all’epoca, forse aveva voluto nascondere la sofferenza per non doverci fare i conti o magari l’aveva affrontata con la leggerezza dei suoi 17 anni, quando non ci si fanno tante
domande, le cose si rompono e basta. Martina ebbe la sensazione che uno spasmo le facesse tremare impercettibilmente il petto, poi un bruciore sulle palpebre, ma era difficile capire cosa succedesse
all’interno delle bende che la stringevano così forte. Era l’inizio del pianto che quando era ragazzina non fece mai? Per Silvia che se ne se n’era andata senza passare l’ultima sera con le sue amiche più
care? Adesso lo ricordava bene, come fosse ieri. Avrebbero dovuto passare la serata insieme a una festa di compleanno nella quale si erano imbucate, tranquille disse Silvia, più o meno so chi è la
festeggiata, voi state vicino a me. Era fantastica, non conosceva imbarazzo, con una risata sistemava qualunque situazione, entrarono senza problemi. L’ospite le guardò con un’aria
interrogativa, solo per un attimo. Silvia sorrise, disse auguri! Lei sollevò le spalle, come per dire, io non so chi siete voi ma voi sicuramente conoscete me e quindi va bene. Entrarono felici come se avessero diritto a godere di ogni festa, ogni gioia della vita.
Cominciarono a ispezionare l’ambiente, chi c’era, chi sarebbe stato meglio non incontrare, chi non ci si poteva credere, come aveva fatto a infiltrarsi quella banda di rompiscatole, i belli, i brutti e i
molto brutti. Silvia, sempre splendida e vistosa, fu immediatamente agguantata da un energumeno di vent’anni, ripetente da tre, discotecaro e belloccio di poche parole. Cominciarono a
sbaciucchiarsi, poi, come un’istantanea, l’immagine di lei che viene trascinata verso un luogo più appartato, uno sguardo supplichevole e complice “è la mia ultima sera qui, perdonatemi”. Non si rividero
mai più. Martina capì che solo in quel momento, a 49 anni, la stava perdonando e ricordò perché non aveva mai permesso a sé stessa di piangere per il distacco. Si chiese se l’amica di un tempo stesse bene
e fosse felice, se quel sorriso fosse cambiato, intanto le pieghe ai lati della sua bocca cercarono di incurvarsi in un sorriso, ma quella fasciatura era troppo stretta e nessuna espressione era possibile.
Martina, come ti senti? Dentro un bozzolo strettissimo, respirava il minimo indispensabile per restare in vita, il naso era libero ma il petto non poteva gonfiarsi, le pupille non erano bendate ma le
palpebre faticavano a muoversi. Il ricordo di lei giovane, i piedi che si muovevano come se non fosse un miracolo o una specie di magia il fatto che siamo ancorati al nostro pianeta eppure ci possiamo
muovere su di esso. Visualizzò le sue mani che toccavano, svolgevano attività inconsapevoli, grattavano dove prudeva, procuravano piacere o terribile dolore, individuavano quel punto, proprio quello, quel nervo che faceva male e lo massaggiavano, che sollievo. Dentro quella struttura nella quale era chiusa, fasciata come fosse Nefertiti, sognava il proprio corpo, ricordava l’aspetto che aveva, la curva delle cosce, i fianchi che le sembravano troppo tondi e adesso lo sapeva che invece era perfetti e si muovevano così bene, e l’inclinazione del collo riflessa nello specchio quando si girava di scatto per rovesciare i capelli su una spalla. Che tenerezza. Quanto amava adesso quel corpo, quanto desiderava poterlo riavere, solo
per qualche minuto, sognava di uscire da quella bara che non poteva neanche percuotere per chiedere aiuto. Non c’era nessuno, solo lei dentro quel buio, il corpo stretto nelle fasciature, il pensiero a farle
compagnia, il dolore di non riuscire a commuoversi e piangere, per Silvia che se n’era andata senza salutarla, per quei fianchi che adesso avrebbe accarezzato e apprezzato nella loro perfezione, le dita
lunghe e elastiche di quando aveva 17 anni.
Prima di rimanere chiusa in quel sarcofago.
Prima della diagnosi di sclerosi multipla.
Martina Oppelli, affetta da sclerosi multipla, ha chiesto il suicidio medicalmente assistito, ma la sua Asl gliel’ha negato.
13 febbraio 2025, intervistata da Maria Novella De Luca su Repubblica ha dichiarato:
“Come vi sentireste se foste legati con corde strettissime oppure chiusi in un sarcofago? Un filo d’erba è più libero di me, esisto grazie al corpo degli altri.”
Martina vive in uno Stato di tortura.
©Ale Ortica