Il giorno in cui ci trasferimmo, sbottonammo i piumini e detergemmo la fronte con il dorso delle mani. Affrontammo l’esperimento con l’allegria delle coppie che si aggiravano caute fra gli scatoloni e i sentori dei detergenti con l’ammoniaca.
Al pensiero di quanto avremmo risparmiato, ci brillavano gli occhi. Le uova fritte nei piatti freddavano rapide. Osservavamo i tuorli rapprendersi e la lattuga ammosciarsi, come se il cibo non ci riguardasse. Sul tavolo, in un angolo e avvolti in fogli di giornale, c’erano le posate con le impugnature colorate e i mestoli di legno chiaro. Nella nuova cucina, avremmo preparato la colazione fissando le nostre facce al sole o le spalle strette nel grigiore di un lungo autunno. La finestra dava su un cortile vuoto e mostrava un
orizzonte di cime montuose.
Non ci eravamo mai chiesti come sarebbe stato. Era il modo migliore per affrontare un esperimento, o così almeno ci dissero all’agenzia. Ci aveva seguiti un uomo che odorava di caffè espresso e troppe notti insonni.
Per quanto fossimo curiosi di entrare in camera da letto, le prime sere, aprimmo il divano nel soggiorno e ci addormentammo scrutando le sagome degli scatoloni nel buio. Parlammo di quanto fosse eccitante stringersi su un letto di fortuna e ricordammo entrambi quei fine settimana che i bambini passavano dai nonni, senza mai dormire. Ridemmo e ci rannicchiammo, pensando alle infanzie scandite dalle mattinate lente e dalle serate trascorse davanti ai televisori chiassosi del sabato.
Dopo un primo entusiasmo, dovemmo infine affrontare l’esperimento.
Aprimmo la porta della camera da letto, ci guardammo come fossimo dei ladri. Portammo le mani alla bocca e ricordammo a mezza voce i giochi dell’infanzia: «Acqua, fuocherello, fuoco». Ridacchiammo e avanzammo sul parquet lucido. Accennammo al motivo della Pantera Rosa, ma smettemmo in fretta. Prima di pensare al letto, e ai mobili da montare, avremmo dovuto guardare al di là del muro. O meglio, della sua assenza.
Avremmo dovuto conoscere il nostro vicino e avviare con lui una conversazione in cui ci saremmo presentati.
Ci eravamo esercitati perfino davanti allo specchio del bagno. Ma le voci erano gutturali, come quelle dei bambini che si scrutano seri. La realtà ci curvava la schiena e ci asciugava la bocca.
Quando scoprimmo che non c’era nessuno, tirammo un sospiro di sollievo. Un particolare, tuttavia, attrasse la nostra attenzione.
Ci lanciammo uno sguardo d’intesa e scuotemmo il capo. Nella camera del nostro vicino, c’era un letto con la testiera in ottone e una trapunta verdastra. Ci eravamo sbagliati. Sul letto fatto, con le lenzuola rincalzate, dormiva un uomo calvo con una maglia grigia. Non c’era nessun altro nella stanza, solo l’uomo che dormiva. Ci aggrappammo l’una al braccio dell’altro, temendo di svegliarlo. Forse avremmo dovuto entrare, superare il confine e scuoterlo per una spalla. Sarebbe apparso saggio chiedergli se i nostri lavori lo avrebbero infastidito. Ma nessuno dell’agenzia ci aveva detto come comportarci, in una simile occasione. Di sicuro, per superare il confine, sarebbe stato meglio ricevere un invito.
Se avessimo compromesso l’esperimento? Se l’uomo, svegliandosi di soprassalto, ci avesse urlato contro? No, era meglio non rischiare. Così non solo non andammo a destarlo, ma evitammo di fare il benché minimo rumore. Sarebbero bastati il tonfo dell’armadio, la strisciata della cassettiera o il cigolio delle doghe. Non sapevamo nulla del sonno dell’uomo, quanto fosse leggero o profondo.
Decidemmo, dunque, di dormire di nuovo in soggiorno. Ma quando ci infilammo sotto le lenzuola, rimanemmo seduti con le ginocchia piegate. Ci guardammo senza vederci. Ombre granulose nell’oscurità delle tapparelle abbassate. Non ci fu bisogno di dirlo. La tensione ci irrigidiva i muscoli e ammutoliva le gole. Avremmo voluto entrambi fare una buona impressione. Ci sarebbe piaciuto che l’esperimento riuscisse.
Il giorno dopo, quando entrambi tornammo dal lavoro, entrammo in camera circospetti. Guardammo al di là del muro inesistente e vedemmo l’uomo sdraiato nella medesima posizione del giorno prima. Alzammo le spalle e ci dicemmo: «Forse è l’ora del riposo, dovremmo provare in tarda mattinata».
Arricciammo il naso, come se le pareti color salvia della stanza attigua emanassero un odore marcescente.
La mattina seguente ottenemmo una mezza giornata libera. Entrammo in camera. Ci fissammo a lungo. C’era un odore cupo e dolciastro nell’aria. Ruotammo il capo e trangugiammo un nodo di saliva. L’uomo era lì. In posizione supina, grigio quasi come il maglione che indossava.
Allora ci coprimmo entrambi la bocca con le mani, uscimmo svelti dalla camera e ci richiudemmo la porta alle spalle.
Dormimmo nel soggiorno ancora qualche notte, fino a quando l’odore non divenne insopportabile. Poi ci decidemmo. Telefonammo all’agenzia e comunicammo loro che l’esperimento era fallito.