Scorrendo con poca convinzione la home di facebook non aveva trovato nulla di interessante, né cose belle né cose brutte, un cartone animato lasciato a metà, un morso a un bel tramonto da
un’inquadratura banale, un sorso di una filippica sulla bioetica di un amico di un amico di un conoscente che aveva messo il like, un cuoricino di malavoglia alla foto del figlio brutto di un amico e
vabbè, è un amico, scriviamogli un bel commento che poi magari il ragazzino cresce e diventa bello, accettabile, almeno.
Si stava annoiando, doveva muovere le dita a mo’ di scroll, su e giù, sopra un monitor. La carta non fa lo stesso effetto. Puoi leggere veloce, arrivare subito alla fine della pagina, però un argomento per
volta, non mille cose tutte insieme, un post sotto l’altro. Non puoi ingrandire allargando le dita, che è una piacevole attività anche se non c’è nulla da vedere.
Aveva un hashtag, ultimo rifugio, estremo bastione dove rifugiarsi in caso di noia incontrollabile: digitava il nome del proprio paese e leggeva tutto ciò che scrivevano i suoi compaesani. Giudicava, commentava ad alta voce, scherniva i deficienti, si dichiarava d’accordo coi notabili.
Apparve così, dal nulla, quasi clandestinamente, l’articolo di una testata talmente piccola e insignificante che quasi potremmo definire “rionale”. Il titolo era gigante, prendeva tutto lo schermo, urlava
perfino: “La Tragedia, giovane cade da villetta”. Non era possibile, non aveva sentito ambulanze, urla, cose, no, le cadute dalle case non sono mai silenziose, le cadute dalle case sono deflagranti, le senti, le
sai.
Scrollò cercando altro e intercettò polemiche interessanti sui rifiuti abbandonati in strada, ma la sindaca nuova che fa? Voleva leggere ogni sillaba in merito, selezionò “tutti i commenti” e si abbandonò allo spettacolo della rissa paesana cercando di attribuire subito nomi e foto profilo a persone conosciute più o meno superficialmente.
Finita la carrellata di commenti si ripropose di tornare più tardi su quel post, dopo aver lasciato ai compaesani il tempo di produrre altro materiale.
Scrollò alla ricerca di altre discussioni.
Un secondo articolo, questa volta di una testata leggermente più importante, portava il nome del paese quindi era attendibile, “La tragedia. Giovane ventitreenne cade dal balcone, è stato il padre a
dare l’allarme”. Giovane ventitreenne, perché? C’è forse altro un modo di essere ventitreenne se non in maniera giovanile?
Comunque, chissà che non abbiano cominciato a usare questo metodo barbaro di insinuare l’idea di un tragico fatto di cronaca per poi indurti a aprire il link e scoprire che cercano di venderti un’automobile.
Scrollò.
Trovato gatto, cane, cavallo, chi ha perso il suo pet? Chi adotta un cinghialetto, poverino, rimasto orfano perché cacciatore locale ha sparato alla mamma per farne sugo? Lo conosceva l’assassino, almeno di vista, si ripromise di passare più tardi sul suo profilo per vedere se ci fossero foto col bestione tipo safari, ma dopo, perché in definitiva l’argomento era già diventato noioso.
Scrollò.
Sconti di un negozio d’abbigliamento del paese, ma non siamo in piena estate? Si ripromise di andare sul profilo del proprietario per vedere se stesse fallendo, magari si capisce da un post, una foto, una canzone.
Scrollò.
Articolo di un quotidiano nazionale, pagina regionale “Tragedia, giovane venticinquenne si toglie la vita gettandosi da balcone, è stato il padre a dare l’allarme”. Quindi è vero, non ci possono essere più dubbi, lo dice la testata nazionale. Tornò indietro e aprì gli articoli sulla giovane ventitreenne che poi è una venticinquenne, ma sempre giovane, la quale è caduta ma si è anche buttata dal balcone della sua villetta. C’era il padre, Cristo santo, il papà ha visto tutto.
Ma chi era questa ragazza? La conosceva? L’aveva mai vista in giro per il paese? Le aveva mai rivolto un pensiero distratto, una considerazione su come era vestita, un saluto impersonale entrando nella sala d’attesa del medico di base? Quel papà lo conosceva? Nessun dettaglio.
Scrollò in cerca di altri articoli.
Arrivò al gruppo dedicato agli abitanti del paese, un nido di vespe traboccante di post beneauguranti per tutti tranne quello stronzo che ti parla alle spalle, quella zozza che ti guarda male, quei fetenti che ti parlano dietro, varia saggezza popolare piena di insinuazioni e frasi sarcastiche nei confronti degli infami. Pensieri e frasi che suggeriscono un’aggressività latente, vile, espressa attraverso immagini banali che fanno pensare a quell’attaccabrighe sguaiato e fessacchione che lancia offese in un bar e poi si stringe con forza alle braccia dei compari fingendo di essere bloccato da questi: “fermatemi sennò faccio un casino! Fermatemi!”. Qualcuno aveva già postato l’immagine di una candela dando per morta la ragazza di venti e lascia anni. In risposta una valanga di condoglianze e vicinanza alla famiglia. Ma la famiglia di chi? Nessuno aveva ancora scritto il nome della giovane e infatti nessun commentatore citava il cognome della famiglia alla quale si sentiva tanto vicino.
Scrollò.
La Pro Loco del paese ripostò l’articolo di un altro quotidiano nazionale con cronaca locale, manifestando dichiaratamente vicinanza alla famiglia per la morte della ragazza. Selezionò “tutti i commenti”, lesse i messaggi di cordoglio e di “sincere condoglianze” ancora “sinceramente” buttate al vento visto che non
si conosceva l’identità della ragazza.
Scrollò. Per ore.
Il giorno dopo si svegliò con un unico pensiero in testa: la ragazza e il papà che aveva visto tutto.
Aprì il social, digitò l’hashtag del paese e scrollò.
C’erano tutti gli articoli del giorno precedente con un numero di commenti che era lievitato come impasto per pizza. Rilesse con più attenzione i vecchi, riconobbe un barista, una ex compagna di
scuola, un bulletto che si credeva chissà chi a quindici anni e adesso ha un baricentro che per miracolo ancora gli permette di non rotolare mentre cammina, brutto imbecille decrepito. Poi trovò quello che cercava, il post di una parente che intimava “smettetela con queste illazioni, mia nipote Sabrina non è morta, lasciateci in pace” e subito dopo un altro post dai toni ancora più accesi “la gente non riesce a frenare la morbosità davanti alla tragedia di una famiglia e poi ancora non è morta, fate schifo”, tutto questo preceduto e seguito da decine di cuoricini e condoglianze, sentite condoglianze (che vale di più) e vicinanza alla famiglia.
I famigliari non volevano né attenzione, né condoglianze e addirittura manco le “sentite” condoglianze. Presumiamo che volessero essere lasciati in pace e non leggere precoci coccodrilli su Sabrina, la quale adesso aveva non solo un nome ma anche un’identità, un’età certa e una famiglia.
Cliccò sul profilo della zia, selezionò “foto”, ne scelse una e ingrandì l’immagine con quel fantastico gesto delle due dita.
Sant’Iddio la conosceva, aveva frequentato i fratelli in gioventù, ci aveva giocato insieme, se le erano date e si erano scambiati i fumetti, avevano guardato insieme la tv, avevano fatto merenda insieme.
Scrollò.
La pagina del comune si stringeva attorno alla famiglia che adesso aveva anche un cognome, almeno trecento post di condoglianze, alcune “sentite” e altre no.
Scrollò e scrollò.
Esercizi commerciali, organizzazioni eventi, associazioni commercianti, tutti con un bel post di condoglianze, chi usava l’immagine di un puttino brutto, chi preferiva una candela da cimitero, chi non sapeva fare la ricerca per immagini e aveva optato per una modella bambina che abbracciava un orsacchiotto, che cazzo voleva dire poi quell’immagine lo sa solo Dio.
I profili della famiglia erano stati chiusi, era facile adesso andare a cercarli, ora che le prefiche avevano individuato la vittima, ne avevano sentito l’odore, avevano seguito le tracce di quello sfogo.
Apri il profilo, maledizione, ti devo far presente il mio cordoglio, voglio poterti sollevare da questo dolore, male che vada posterò foto private con la defunta ancora bambina, ritratta mentre mangia una fetta di torta di compleanno o sullo sfondo di un ritratto di gruppo durante una gita scolastica.
Si chiedeva perché Sabrina lo avesse fatto e nessuno di quei post senza senso poteva spiegare quali vuoti, quali suoni, quali correnti scorressero nella mente della ragazza che quel giorno ha guardato
papà e non è riuscita a rimanere agganciata al suo calore, forse si è solo girata, ha perso l’equilibrio di quell’amore caldo e il freddo l’ha trascinata giù.
La verità è che adesso non sapeva più che fare, dove trovare le risposte, come rattoppare l’incrinatura che si stava allargando nella sua percezione della realtà.
E allora scrollò.
Era in attesa di leggere lo sfogo di uno degli zii di Sabrina che dopo lo spavento poteva dedicarsi a insultare tutti i cari compaesani che avevano dato per morta la nipote, fino a prova contraria ancora in
ospedale, in condizioni gravi, così si leggeva negli articoli, ma viva.
Scrollò oltre gli sconti per rinnovo locale, la gioielleria che chiudeva e il proprietario aveva fatto un video in cui urlava e blaterava come un imbonitore televisivo, ancora nessuno aveva adottato il cane, il
gatto, il cavallo e cinghiale, il bullo panzone, gli assessori del comune che dopo un mese dalle elezioni ancora rompevano i coglioni sui buchi nel bilancio lasciati dall’amministrazione precedente.
Scrollò.
E poi lo vide. Sotto l’ennesimo articolo di quotidiano nazionale con cronaca locale, il gommista si dichiarava vicino alla famiglia, un non so chi rispondeva che la notizia della morte era stata smentita e poi il fioraio si inseriva, purtroppo adesso è vero, la notizia è stata confermata, da chi? Non importava. Adesso era chiaro, si sentiva sottopelle, non era più possibile dubitare, Sabrina era morta e in qualche modo anche il papà lo era.
«Pronto, mamma? Hai saputo della ragazza…»
«Sabrina, sì l’ho saputo, stavo ascoltando il tg regionale e… Gesù, conoscevamo la famiglia, tu giocavi con i fratelli del padre… la mamma, cioè, la nonna, la signora Maria, te la ricordi? Faceva le marmellate, le compravo sempre. Quella creatura, Dio mio, quella creatura. Io non so, devo aspettare, devo pensare, forse ci vorranno settimane, io devo chiamarla la signora Maria, o andarci, o non lo so, ma io glielo devo dire, mi sento male, sto così male, non è giusto, non si può soffrire così…» Singhiozzi, tirate su col naso,
suoni spiacevoli. «…Ma fra un po’, adesso bisogna che la gente li lasci in pace. Santo Dio, che li lascino in pace. Mi sento male. Quella creaturella. Che li lascino in pace…»
«Mamma…»
«Uhm… eh? Sì scusa. Dimmi.»
«Tu, come stai?»
Scrollò.