Vivere in un posto non è la stessa cosa che guardarlo da lontano.
Per questo le parole della mia amica Simona, che vive negli States e insegna alla University of Louisville, mi hanno colpito. Mentre eravamo ancora tutti in ambasce per queste tormentate elezioni americane, la mia amica diceva che per lei, l’assassinio di Breonna Taylor è stato lo spartiacque. La cosa mi ha dato da pensare. Breonna Taylor – 26 anni, infermiera, afroamericana – dormiva in casa sua quando tre poliziotti hanno fatto irruzione e le hanno sparato. Era il 13 marzo 2020. A giugno ancora non si trovava la strada per risolvere il processo. Le procedure giudiziarie si sono trascinate per mesi, provocando turbolenze assai preoccupanti nelle strade di Louisville e altrove, senza che questo cambiasse davvero le cose e conducesse a una reale punizione dei colpevoli. La mia amica Simona era lì. E mi ha detto appunto – a me e ad altre amiche – di come abbia capito, in quella precisa circostanza, il privilegio di essere bianca.
La parola “privilegio” mi è rimasta in testa, un po’ imprecisa, impugnabile, poco delineata. Così adesso provo ad avvicinarmi di più, a darle corpo e sostanza. Certo, comincio da lontano, perché a distanza è più facile abbracciare il quadro nel suo intero, e se sei dentro un guaio, non ne vedi i dettagli. A guardare la storia degli altri, invece, certi particolari si osservano bene. Il primo lo indica Toni Morrison, nel suo straordinario Amatissima, quando racconta una storia lacerante e verissima attraverso la finzione narrativa. Questa storia è scritta sulla pelle di una schiava in fuga, Margaret Garner, che nel 1855, braccata vicino a Cincinnati dai cacciatori di schiavi e temendo di essere riportata nella piantagione da cui era fuggita, in Kentucky, uccide sua figlia neonata, per paura che si trovi a subire quel che ha subito lei. L’omicidio come atto di preservazione è una soluzione incomprensibile e straziante, che illumina un universo di dolore inconcepibile.
Angela Davis, nel suo Race, Class and Gender soprattutto (in particolare nel primo capitolo), si chiede una volta di più come mai solo in anni molto recenti ci si sia resi conto del vuoto di narrazioni che riguarda le donne impiegate nelle piantagioni. Quella che viene raccontata è la storia della sofferenza degli uomini, la cui sorte, tuttavia, era fatalmente diversa – e migliore – rispetto a quella delle donne. Ciò che si dimentica spesso di raccontare – e che sta alla base della differenza storica tra donne bianche e donne afroamericane – è che le nere schiave erano considerate esattamente come gli uomini. Si trattava di una forma di parità produttiva non certo lodevole, ma reale, nel senso che le donne dovevano lavorare come gli uomini, e non vi erano privilegi di sorta, neanche durante la gravidanza e allattamento. In più, le schiave subivano forme di maltrattamento impensabili per gli uomini: stupri, violenze, gravidanze non volute e finalizzate a incrementare la forza lavoro nella piantagione. Erano costrette a veder sparire figli e compagni, e dovevano imparare a badare a se stesse molto presto, molto prima degli schiavi maschi. Questa condizione, che è andata ben oltre l’epoca della segregazione razziale codificata per legge, ha forgiato un profilo di donna che non è neanche lontanamente confrontabile a quello della donna bianca. Sempre Angela Davis, in una conferenza recente, insiste con molta chiarezza sull’impossibilità per una donna nera di identificarsi con il “bourgeois feminism” o “glass-ceiling feminism”, una forma di mobilitazione gestita da donne che hanno avuto accesso all’istruzione, al lavoro, a una famiglia nel senso corrente del termine. Tutte realtà difficilmente attuabili e a malapena comprensibili per una donna afroamericana e anche, in un orizzonte più ampio, per una donna di colore.
In questa cornice, si colloca il successo di Kamala Harris, che a rigore afroamericana non è. Figlia di madre indiana e di padre giamaicano, la vicepresidente scelta da Biden è la prima donna – e “Asian American” – a raggiungere una posizione politicamente così influente. È una novità sfolgorante, che non va sottovalutata, anche quando avvicinandosi ci si rende conto che essa presenta delle ombre. Harris – e adesso molte testate giornalistiche si impegnano a farlo notare, nella tradizionale foga di smussare gli entusiasmi – arriva da una carriera contraddittoria, prestazioni non cristalline da procuratrice, un atteggiamento molto progressista su alcune questioni (riabilitazione dei minori con il programma “back on track” o grande rilievo dato alle campagne di contro l’environmental racism, campagne molto apprezzate da BlackLivesMatter), ma decisamente indeciso e a tratti deresponsabilizzato in altre situazioni (i provvedimenti contro le violenze della polizia nei confronti degli afroamericani, ad esempio; oppure le questioni legate alla sanità, o infine la pena di morte). Però il dato in sé resta importante e ha un valore simbolico che non va trascurato.
L’attribuzione di questa posizione a una donna – non a un uomo, come sempre è accaduto – e “colored” – non bianca – spalanca strade a molte altre donne vittime del privilegio degli altri.
Questo Harris lo ha detto in modo molto chiaro nel suo discorso: “While I may be the first woman in this office, I will not be the last”.
“Sono la prima, ma forse non sarò l’ultima”: è stata varcata una soglia, e sarà difficile tornare a chiudere a chiave la porta.
Dunque, saltiamo il confine del profilo individuale – che può avere e per certo ha luci e ombre – e capiamo che cosa comporta questo passo. Forse, sarà meglio non demolire in anticipo e anche non celebrare a prescindere. Sarà bene sospendere il giudizio, e vedere che cosa accade.
E qualcosa, ne son certa, accadrà.
2020-11-16