RoManzicismo

Squillava il telefono. Di nuovo.
Era l’agente immobiliare. Di nuovo.
Bruno, detto Toccodimanzo, abbreviato in Manzo. Sebbene Nina sospettasse che quel riferimento le fosse sbocciato in testa a causa della perenne dieta dimagrante alla quale si sottoponeva, la genesi di
quel soprannome partiva ufficialmente da un notevole paio di occhi azzurri.
La fame sta negli di chi la soffre.
Max alzò lo sguardo dal portatile sul quale stava cercando di lavorare e si preparò ad assisterla nelle domande più tecniche e perniciose. Nina lo guardava con occhi preoccupati e aspettava un
cenno di assenso dopo ogni risposta. Il volume del cellulare era sempre al massimo e lei lo aveva anche rinforzato con una applicazione specifica per anziani sordi o ragazzini che improvvisano feste trap in strada, dunque Max era perfettamente in grado di seguire tutta la conversazione.
«Scusa Nina, il notaio vuole un documento d’identità, se mi mandi la foto gliela rigiro io. Per la firma, va bene se ci vediamo venerdì?»
Stava acquistando un appartamento e l’agente immobiliare la aiutava a espletare tutte le pratiche. Lei guardò Max con aria interrogativa, piantandogli addosso due occhioni da cucciolo smarrito che non
trovavano giustificazioni in quel contesto. “Sì sì, va bene”, sussurrò.
«Sì sì, va bene venerdì. Grazie.»
E anche la quarta telefonata era finita.
In mattinata lei aveva chiamato Manzo per chiedergli se avesse un notaio di fiducia, visto che lei non ne conosceva nessuno. Sì, lui ne aveva uno proprio nel cilindro, tranquilla lo chiamo e ti faccio
sapere se è libero. Il notaio è libero, ha bisogno di questi dati, va bene glieli comunico io e ti faccio sapere. Sì ma è la prima casa? Ok glielo dico e ti richiamo.
Max continuava a lavorare sul suo portatile, «Ciccia, questa tua relazione con l’agente immobiliare sta diventando imbarazzante, non fosse altro per la penosa banalità del cliché. Mi avresti ferito di
più solo con un maestro di tennis… no, aspetta…», sollevò lo sguardo con aria meditativa, «con un maestro di padel, se ci penso bene.»
Nina era ormai irrimediabilmente scivolata in una fase lamentosa «l’immagine del documento non viene bene, guarda! Le luci dei faretti, mi fanno ombra. A parte il fatto che in questa fototessera ero un avanzo d’avanspettacolo. Guarda, ero tinta! E perché portavo i capelli come Mel Gibson negli anni Ottanta? Ho avuto un periodo di depressione che ho rimosso? Ne sai qualcosa tu?»
«Ricordo che hai avuto un periodo di passione per Daniel Day-Lewis, forse hai chiesto alla parrucchiera un taglio alla “Ultimo dei mohicani” e lei avrà pensato, “un taglio alla mohicana”! Che scelta interessante. È andata così.»
«Mi aiuti a tenere in verticale i documenti? Così non vengono ombre…»
«Stiamo partecipando a Modamare in portafoglio?»
Squillò il telefono.
«Scusa Nina, sono sempre io.»
Max sussurrò ammiccando “questa storia tra voi sta diventando imbarazzante”, lei soffocò una risata «ma figurati, dimmi.»
«Il notaio vuole sapere la situazione patrimoniale, comunione dei beni?»
«Di chi?»
«Come “di chi?”»
«Chi è in comunione dei beni?»
«Tu e tuo marito, intendo.»
«Mio che?»
Max cominciò a fare segnali indicando sé stesso, “non gli hai neanche detto di me? Allora è una relazione seria! Mio Dio!” lesussurrò. Stavolta lei dovette mettere una mano sul ricevitore e sfogare uno sghignazzo.
«Oh, sì, scusa. No, non sono in comunione dei bene e non sono neanche sposata.»
Tutti pensavano che lo fosse. Quando Nina si riferiva a Max lo definiva sempre “mio marito” per praticità, innanzitutto perché “fidanzato” sarebbe stato patetico alla loro età e poi perché “compagno” era una parola terribilmente anni Settanta, faceva troppo freakettoni, mentre loro si vedevano più come Michel
Serrault e Ugo Tognazzi in Il Vizietto.
«Quindi, nello stato civile cosa faccio scrivere?»
Ecco, non ci aveva pensato, eppure quella orrenda situazione a volte si presentava e lei rimaneva sempre spiazzata, orripilata dalla risposta che era costretta a dare.
Da ragazzetta, non frekettona bensì deficiente senza attenuanti, aveva sposato legalmente un curioso esemplare di ominide, per ragioni che non comprendeva neanche allora. Desiderò fuggire da
quell’impresa folle non appena lo vide compresso dentro ciò che evidentemente egli aveva identificato come “il vestito buono”, con le scarpe pesanti e quadrate, la giacca sgarrupata come un paese
terremotato, praticamente stava sposando Paulie Gualtieri de I Soprano. Valutò che ormai aveva litigato con tutta la famiglia e sopportato l’atteggiamento passivo aggressivo della madre, il biglietto era stato pagato, così decise di proseguire ugualmente.
Le foto di rito le inflissero un colpo già abbastanza duro.
Il Soggettone la esortò a posare con l’intreccio dei calici, un complicato numero circense che sconsigliamo al lettore senza un adeguato allenamento. L’energumeno ci credeva con tutto sé stesso,
cercava di avvinghiarsi e attorcigliarsi al braccio di lei, intanto si protendeva verso l’agognato calice, ammiccando come il protagonista di una telenovela sudamericana. Si sentiva Wolverine.
Ma la sintesi della disgrazia, l’apice dell’apoteosi della schifezza fu raggiunta quando una volenterosa parente decise che era giunto il momento di omaggiare gli invitati coi confetti sfusi, comprati all’ingrosso, buttati dentro una cesta da ortolano e distribuiti con una paletta da venditore di caramelle al chilo. La dispensatrice infastidiva gli astanti, indugiava con entusiasmo centellinando il malloppo croccante affinché nessuno ne avesse più di altri, contava i pezzi, si riprendeva quelli in eccesso sfilandoli dalle mani dei bimbi, se necessario. La mensa dei poveri.
Un cuginetto obeso fece sparire i suoi confetti e cominciò a girare tra gli ospiti con aria distratta, raccattò il possibile da parenti e sconosciuti e si guadagnò improperi e calci nel culo dalla mamma.
Si formò poi una ordinata fila di parenti di lui che lo omaggiavano con due baci e una busta da lettere, contenente banconote: era il temutissimo rituale de “la busta di soldi”. E così, la sposa era
definitivamente sprofondata in un gangster movie.
La sera stessa, ella dormì in posizione fetale, da sola, dopo aver immaginato il discorso che avrebbe fatto ai genitori per spiegare loro che aveva bisogno di un avvocato divorzista.

«Stato civile: divorziata» rispose afflitta a Manzo.

Max non infierì e non tentò neanche di rallegrarla con una battuta, sapeva quanto quella situazione fosse penosa per lei.
Appena la telefonata giunse al termine, lui le si avvicinò con gentilezza «prima o poi dovremo porre rimedio a questa situazione», le disse.
Lei, che vedeva l’istituzione del matrimonio come un semplice contratto e non aveva mai sognato di sfilare attraverso una navata, dentro un vestito che costava più dei suoi reni, cominciò subito a
valutare se quella proposta estemporanea fosse conveniente.
«Dunque, quell’appartamento lo compro per metterlo in affitto, vale come prima casa?»
«Non so, non hai la residenza lì, quindi, forse no…»
«Perché questa casa è intestata a te, dunque, la residenza…»
«Sì però, che importa? Voglio dire, si stabilisce la divisione dei beni, no?»
«Sì, va bene. Quindi, se però… devo chiedere a Manzo, non sono sicura…» Nina continuava a farsi i conti e a cercare di ricordare. Se non si erano mai sposati dopo più di vent’anni, forse c’era qualche
cosa in quel contratto che non sembrava loro conveniente, e allora, perché? Ne avevano discusso, forse, tanti anni prima. Vuoi essere la mia meringa di zucchero? Vuoi tu Ciccia rendere quest’uomo
responsabile di tutti i tuoi pasticci? E naturalmente, sì, c’era l’idea di Las Vegas, il classico intramontabile, la cappella di Elvis coi testimoni prezzolati, per una cerimonia senza valore legale.
E perché non lo avevano fatto?
Nina snocciolava quisquilie legali come un finto avvocato di Forum, Max restava immobile, in attesa.
Lei percepì la mancanza delle battute di lui.
All’improvviso interruppe il suo monologo e lo guardò come se lo vedesse entrare dalla porta in quel momento.
«Scusa, non è che mi stai chiedendo di sposarti?»

©Ale Ortica

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