Io lo sapevo: alla fine il vero problema sarebbe stato fingere. Fingere di avere paura, fingere gli attacchi di ansia, fingere gli incubi e le insonnie notturne.
«Che cosa terribile ci sta succedendo, vero? Questo isolamento è orribile, ci toglie la libertà. Impazziremo tutti» era quello che sentivo dirmi da tutti e leggevo ovunque.
Io annuivo o infilavo una faccina triste e fingevo un’apprensione che ero lontana dal provare.
Perché in realtà, io e la mia sociofobia ce la stavamo cavando alla grande e, per una volta, non avevamo più bisogno di scuse patetiche per evitare di uscire di casa e incontrare laggente.
Sapevo che “c’è il coronavirus” sarebbe stata una scusa che avrei usato a lungo, almeno fin a quando non sarebbe arrivato qualcosa di ancora più malevolo e dannoso, tipo un Calderoli.
Alla fin dei conti, parlare con gli elettrodomestici era istruttivo e, superato l’imbarazzo di quando li avevo sentiti rispondere per la prima volta, il resto era stata tutta discesa.
Esaurita la scorta di scherzi deficienti (tipo suonare i citofoni e fingersi Salvini con il coronavirus), dopo alcuni giorni dall’inizio dell’isolamento, con gli amici di bevuta avevamo inaugurato il filone demenziale con l’aperipirla: aperitivo in streaming alle ore 18,30, ognuno si alcolizzi come può.
Nota negativa: alle 19 eravamo già tutti sbronzi.
Nota positiva: nessun rischio di alcol test.
Da lì alle cene social era stato un attimo. Ore 20,30 tutti davanti al notebook, ognuno nella cucina di casa propria (i più fighetti dal soggiorno).
Da anni decidere il menu di una cena era diventato un complicato gioco di strategia: la Niny non mangia latticini, la Pinty non tollera il glutine, la St. Mary non mangia nulla che inizi per A. Insomma, decidere che cosa mettere in tavola era un vero delirio.
Ma con le cene social, ogni conflitto era risolto: ognuno si cucinava da sé e nessuno doveva più impazzire con un diabolico tetris alimentare.
Dopo un paio di giorni dall’inizio dell’isolamento, qualcuno aveva pensato di rallegrare gli spiriti postando streaming casalinghi. All’inizio un’idea anche simpatica, poi ci eravamo fatti prendere la mano. Prima erano stati i cantanti e i musicisti, poi gli attori, infine qualsiasi scalzacane si autoproclamava artista e imponeva dirette infinite sulle minchiate più improbabili, dagli assoli di citofono alle imitazioni di Germano Mosconi.
Se c’è una giustizia divina, niente rimarrà impunito.
Anche sulla cosa dei balconi avevamo perso il controllo, ammettiamolo.
Un giorno qualche frescone aveva lanciato l’idea di un flashmob sui balconi: ore 18 tutti sui terrazzi a cantare l’inno di Mameli.
Dall’inno di Mameli alla compilation di Sanremo 2009 era stato un attimo e per giorni, al calar della sera, le città si trasformavano in orrendi karaoke: una vera, enorme, stratosferica rottura di palle in dolby surround.
E anche se tu evitavi come la peste qualsiasi accenno canterino, non avevi scampo. Dopo una settimana di isolamento, in orario assolutamente neutro, ero uscita sul balcone per scrollare la tovaglia: subito dal condominio di fronte era partito un applauso condito da urla belluine e richieste di bis che mi avevano fatta rientrare in casa di corsa e col fiatone.
A due settimane dall’inizio della quarantena, la mia vita procedeva su binari tranquilli e sicuri.
La spesa mi veniva garantita a domicilio da un supermarket e da una serie di piccoli e solerti esercenti del paese. Il paki sotto casa mi assicurava pizza e kebab ancora bollenti.
La voglia di shopping compulsivo era abbondantemente placata da tre piattaforme che tenevo monitorate con grande attenzione.
Non c’era offerta che mi sfuggisse: dalle lenzuola di cotone in fantasia indiana al miracoloso siero contorno occhi, in pochi istanti la mia Visa compiva la transazione e nel giro di pochi giorni il pacchetto mi veniva recapitato dal corriere direttamente nell’ascensore del condominio. Non dovevamo nemmeno incontrarci.
Salutavo il resto della famiglia via Skype, non dimenticando le frasi di rito: “Oh, si, certo, anche voi mi mancate tanto” e “Se solo avessimo avuto il tempo di organizzarci sarei venuta a passare l’isolamento da voi”.
Mentivo.
Coi gatti avevamo stabilito un sistema di comunicazione a sguardi e quando proprio avevo voglia di evadere, di solito il sabato, mi vestivo bene, infilavo un paio di orecchini, mettevo un filo di rossetto e poi andavo ai cassonetti della differenziata a gettare l’immondizia.
Poi un giorno, all’improvviso, proprio quando il tunnel era pressoché arredato, il coronavirus scomparve.
Di punto in bianco le persone smisero di ammalarsi e di morire. I tamponi risultavano negativi, gli ospedali si svuotavano, medici e paramedici riprendevano una vita normale e un intero pianeta tirava un sospiro di sollievo.
Un intero pianeta tranne me.
La gente correva in strada e si abbracciava. Persone che fino a qualche mese prima si sarebbero prese a sputi in un occhio si smanacciavano e baciavano, giubilanti come naufraghi che toccano terra. Feste, canti e balli in ogni paese. In ogni quartiere. In ogni via. In ogni condominio.
L’incubo era ricominciato.
©Viviana Gabrini, 2020