Nel flusso la mattina camminavo veloce. Borsa piena, cose da fare. Biglietto, tornello, aspettare, salire, le porte chiuse. Aggrapparsi gli appositi sostegni. Musica nelle orecchie. Non vi sento ma vi guardo. Chissà cosa pensate, chissà a che ora vi siete svegliati, chissà dove sono i vostri figli: come erano stamattina, con la stanza ancora buia e gli occhi pieni di sonno. Le porte si aprono, seguiamo il flusso insieme, come un serpente ammaestrato. Curvare, salire, andare dritto, biglietto, uscire. Una volta fuori siamo diversi, ognuno segue la sua strada, entra nel suo portone, si siede alla sua scrivania. Ma siamo anche uguali, parte di qualcosa. Voi lo siete ancora, io a un certo punto non lo sono stata più. Poche righe. Venga nel mio ufficio. Una lettera consegnata a mano. Uscire da quel portone un’ultima volta.
All’inizio smettere di seguire il serpente è quasi un sollievo. Pensi che avrai tempo per imparare il giapponese, andare a yoga, coltivare le piante sul terrazzo. Passano i giorni. Dormi. Ti stai riposando, ti dici. Ma non sei stanca. Però ti svegli e torni a dormire. Vai per sottrazione. La città si restringe, ti senti sicura solo vicino a casa. Si restringono i rapporti, diventano più brevi i libri, i film, le conversazioni. Al corso di giapponese non ti iscrivi e neanche a quello di yoga, le piante sul terrazzo sono quelle di sempre. Cosa fai nella vita? Lasci correre. Nel flusso non entri più. Il serpente ammaestrato ha perso un pezzo e lo hai perso anche tu. Ogni tanto fingi di avere fretta, la mattina. Così, tanto per risentire quel suono dei passi leggeri sul marciapiede. Tic, tic, tic. Ti guardi in giro. Riconosci subito quelli come te: al bar, al supermercato. Fingono anche loro. Guardano l’orologio come se importasse. Sono impazienti in fila, per abitudine o per paura di essere riconosciuti.
In una città che corre sempre è facile pensare di essere fermi. Ma non è così. Accade lentamente, millimetro dopo millimetro, respiro dopo respiro. Un anno e mezzo, quasi due. Se prima riuscivi a fare solo il giro dell’isolato, un giorno ti trovi qualche via più in là. Che bella che sei Milano, sei sempre stata così bella? Ti accorgi di tutto. Parli, ascolti. Rifai il letto. Apri le finestre. Prepari il caffè. Non una tazzina, ma una tazza grande. Ti prendi il tempo per berla. Scopri un flusso diverso, un passo che forse è sempre stato il tuo. Non fingi più. Ti fai sorpassare. Prego, vada avanti lei. Cosa fai nella vita? Sorridi. Non sei più una di loro. Ma ci sei.
©Sara Uslenghi, 2020
©Foto Marco Brando
Giornalista, milanese di quelle che se escono in tangenziale hanno l’ansia, Sara Uslenghi ama essere circondata da palazzi alti e da insegne accese tutta la notte. Se le volete male invitatela a fare sport, se le volete bene offritele un pranzo di cinque portate almeno. Ha cercato per anni di diventare una persona solare, ma una volta compiuti i quarant’anni si è felicemente rassegnata ad essere una pessimista spiritosa.