Presente

L’inizio di gennaio era il periodo ideale per indossare il lutto, piangere i propri defunti, onorare la loro assenza, che in certi casi riempiva la vita più di quanto lo avesse fatto la loro presenza.
Il gruppo di amici si era dato appuntamento per pranzare insieme, approfondire i fatti che avevano portato a quel tragico epilogo e scambiarsi le chiavette con le serie tv scaricate illegalmente su
Telegram. Si erano conosciuti all’università e il dolore per quella perdita li aveva uniti immediatamente. Giacomino, esile, una mappa dell’universo stampata sulle guance e i denti sporgenti come la leva
che solleverà il mondo, era cresciuto assorbendo il cordoglio dei genitori e del nonno materno, suggendo latte e fiele dai primi giorni di vita. Ricordava quando ad appena due anni fu portato in ostensione, a cavacecio di papà, ad assistere al primo rito di commemorazione. La compassione, i gesti, i rituali, tutto così mistico e ricco di significato. Fu proprio lui a creare il gruppo, facendosi polo d’attrazione e organizzatore d’eventi, casa sua sempre a disposizione per accatastare volantini e contenere la
memoria collettiva.
Fabbiana e Suelle, le sorelline dell’Esquilino, conoscevano Giacomino dalle elementari, mentre Coradino si era aggiunto alla comitiva durante la manifestazione dell’anno precedente. Flavio non
era mosso da autentico sentimento di cordoglio ma siccome era perdutamente innamorato di Suelle, glie batteva i pezzi da quando avevano intrecciato due metri di lingua in discoteca a capodanno,
aveva ritenuto accettabile vestire quel lutto artificiale anche solo per starle vicino. La ragazza non ricordava nulla di quella corrispondenza di amorosi sensi avvenuta sotto i fumi del Mojito, ma aveva appreso tutto tramite i racconti di Nadia e Renatino, fidanzati dalle medie e anch’essi parte del gruppo. La ragazza non era intenzionata a dare seguito a quell’episodio, ma fingeva di tenere aperto uno spiraglio perché Flavio aveva il permesso di guidare la macchina del padre, capiente abbastanza per contenere tutti loro e anche le attrezzature per la commemorazione.
Occupavano un tavolo centrale nella paninoteca “Mi’ nonna al Trullo” e discutevano a voce alta con aria d’importanza, nella segreta speranza di essere uditi fino ai tavoli più periferici, erano su
un palco. Renatino era pensieroso, la fronte resa più alta da un’incipiente calvizie precoce e una borsa dell’acqua calda al posto dello stomaco. Ascoltava svogliato le indicazioni di Giacomino che
stava pontificando «quest’anno, se ci fermano i giornalisti, cerchiamo di fare bella figura, vi prego.» Si scambiavano fogli di appunti scritti a mano con una calligrafia incerta e disomogenea,
macchie di olio rimaste sui vari polpastrelli si allargavano sulle pagine durante il passaggio, erano faccioni gialli e stupiditi.
Fabbiana si impettì, seduta sulle ginocchia di Coradino, e cominciò a declamare un mantra «siamo qui per Franco e Federico…»,
«Francesco! Siamo qui per Franco e Francesco, te l’ho detto settantordici volte Fabbi», interruppe Giacomino furente.
«Scusate, mi sbaglio sempre con mio cugino di Ladispoli, ma comunque, Franco non è il diminutivo di Francesco? Cioè, a me sembra strano, tipo Simo e Simone», la ragazza lanciò un’occhiata al
resto dei commensali in cerca di solidarietà «ragazzi, non vi sembra? È strano. Per me è strano.»
«Fabbi, è quello che è. Pure tu hai un nome strano perché all’anagrafe si sono sbagliati a scrivere. Oggi potevi essere una Fabiana e invece sei una Fabbi, che vogliamo fare? È quel che è» sentenziò Flavio. Ci fu silenzio, tutti guardarono con profondo
rispetto l’amico che si era espresso con tanta saggezza, annuirono.
Qualcuno lanciò uno sguardo malizioso a Suelle che subito impostò il petto e socchiuse gli occhi come un rettile assonnato «non mi guardate, lasciatemi stare, io di Suelle ne conosco altre due. È un
nome. Esiste. Non cominciate a rompermi le scatole.»
Giacomino riprese il discorso «dicevo, ricordiamoci che erano due i noi, uccidendo loro ci hanno feriti tutti, li piangiamo come fratelli, siamo emotivamente scossi, appuntatevi tutto, siamo scossi,
non li dimenticheremo e ogni anno terremo vivo il loro ricordo per tutti i morti per la libertà…»
Si udì un flebile brusio partire involontariamente dal pomo di Adamo di Renatino. Giacomino si bloccò all’istante. Una nenia molto bassa, un flebile ronzio intonava una melodia, mmm mmm,
qualcuno da un tavolo vicino percepì quella lieve vibrazione e inconsciamente allineò la sua voce, mmm mmm… si trasformò in un ritmo, tre battiti decisi. Una cameriera stava pulendo il succo di
frutta che un cliente aveva versato su un tavolo, le gocce stavano già formando un laghetto appiccicoso per terra, mentre si chinava agganciò la melodia e anche lei, senza pensarci, proseguì con una
tonalità che le permettesse di affrontare gli acuti. Poi di nuovo i tre battiti ao ao ao, erano stati contagiati altri due tavoli e un ragazzo svogliato che prendeva le ordinazioni al banco. In pochi secondi, il
brusio si elevò e divenne canto, una mattina mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao.
Renatino si svegliò da uno stato di trance, intimorito dallo sguardo di Giacomino «che c’è? Mi è venuta all’improvviso. Anzi, adesso ne canto un’altra così siete contenti. Faccetta nera, dell’Abissinia, aspetta e
spera…»
Gli amici si guardarono intorno imbarazzati, era calato il silenzio nel locale, poi, ognuno aveva ripreso a chiacchierare in una nuvola di ronzio omogeneo, la cameriera accovacciata sulla sua pozza di succo
di frutta, il ragazzo pigro prendeva un’ordinazione con espressione indolente, la festa era finita o non era mai iniziata, il solito tavolo di imbecilli provocatori.
«Questa non la sanno», sussurrò Giacomino.
«Finiscila che ci guardano tutti», disse con tono aspro Nadia, non sembrava una buona idea contraddirla. Era alta, magrolina, il viso paralizzato in un’eterna maschera di disapprovazione, le dita
scarnificate dall’abitudine di mordersi la pelle a sangue. Per lei, la politica era strettamente legata al discorso di appartenenza al gruppo e non notava incongruenze tra i concetti e gli epiteti scambiati
all’interno di quella congrega e l’amicizia con “quelli del palazzo”.
Nadia viveva in una casa popolare, cresciuta giocando con altri figli della monumentale palazzina TB – scala ND – piano, interno, sezione, ecc… Sua madre, Aurelia, era un’impiegata logistica in una
piccola ditta di trasporti, il padre si era reso indesiderabile e irreperibile dopo un ultimo scambio di ira e schiaffoni a mano aperta con la moglie. L’unica buona decisione della donna fu quella di congedarlo dalla sua vita, mentre era ancora incinta dell’unica figlia. Poi venne Eugenio, un militante di estrema destra,
appartenente al partito “Scorza d’ova”, poco convinto che il lavoro renda liberi, infatti fu proprio il lavoro l’unica cosa dalla quale si tenne sempre a distanza, preferendo una carriera politica da affabulatore di folle, svolto prima nei bar e poi in trasferta sui social.
Nadia sfidava con indolenza gli strali di madre e compagno contro gli amici d’infanzia, coi quali passava tutto il suo tempo libero, oltre a quello sottratto ai giorni di scuola. La mattina del compito di
matematica di prima media lo passò su una panchina, nel parco mezzo smozzicato di fronte a casa, con Simone, nero come solo un figlio di nigeriani può essere, a ridere di oscene barzellette in dialetto
romanesco e a fumare le Diana che lui si faceva comprare da amici più grandi. Sonia aveva un paio d’anni più di lei e la introdusse nel magnifico mondo dell’assorbente interno, la mamma era magrebina
e il padre italiano, quindi si presentava al mondo come Principessa Mezzosangue, quella del film de Harry Potter, citazione altissima che la rendeva fiera. C’era Mimmo, detto “Pompino” per motivi che si
sono persi nel tempo, quando lei e Atifa (“chiamateme Antifà”, diceva in romanesco la figlia di immigrati nord africani), avevano rubato dei profumini da Lidl. Le corse pazze, le cinghiate sulle coscette
secche di Nadia perché quel giorno era tornata tardi e il patrigno esigeva un po’ di serietà. I segni addosso li avevano visti tutti, i professori esprimevano viva preoccupazione per quella situazione,
ma nel profondo erano irritati da quella ragazzina “dei palazzi”, che li richiamava a un senso di giustizia e solidarietà troppo impegnativo. Fu Sonia a capire cosa volesse fare Eugenio alla figlioccia quando le aveva stretto le mani indecenti all’interno delle gambette e Nadia, allora dodicenne, aveva cercato riparo tra gli
amici sgangherati che bivaccavano nel parchetto sotto casa.
Era cresciuta, aveva perso tutte le occasioni possibili, lasciato la scuola, preso botte da genitori e fidanzati, vissuto tiepide prime volte, abbandonato per strada ogni tipo di entusiasmo. Viaggiava leggera Nadia. Senza farsi domande aveva aderito alla prima verità indiscutibile che il mondo le aveva presentato: la destra era il partito dei poveracci, la sinistra era tetra, culturale e pariolina. Le implicazioni razziste, la guerra tra poveri, la prevaricazione sul più debole erano aspetti sui quali non le interessava interrogarsi, la sua anima era tiepida come un lumino votivo, farsi un’idea del mondo indipendente dal pensiero di genitori e fidanzati le sarebbe sembrato presuntuoso.
I ragazzi raggiunsero il corteo verso le 17.00 e si inserirono nel flusso godendo della straordinaria energia della folla, brividi di freddo, erezioni, peluria inturgidita, come membra di un unico organismo brulicante di insetti e larve in maturazione. Tutti vestiti di nero, un lutto accecante, quasi luminoso. Suelle felice nei suoi anfibi nuovi comprati da Zara a 39 euro dopo un estenuante tira e molla con la mamma che neanche i più alti ideali politici rendevano malleabile quando si trattava di aprire il portafogli, se voi cambia’ er
mondo vedi prima de trovatte un impiego perché coi sordi mia ce combatto le cose mie, diceva.
Giacomino vibrava all’unisono con il corteo funebre e attendeva il momento di più estrema esaltazione del lutto: il braccio alzato e la risposta, “presente”. Quasi piangeva pregustando quel gesto. Non si
irritò minimamente quando una montagna di due metri coi capelli rasati lo urtò spingendolo tra le braccia di Flavio, poco mancava che tirassero giù tutti i birilli, ma prego, ci mancherebbe, camerata, è un
piacere. Come parlava la montagna? Ja, era tedesco, e poi aveva sentito dei franzosi, tutti fratelli accompagnati da grandi autobus per manifestare anch’essi cordoglio e rispetto per i loro italici camerati morti per la libertà… Non farti entrare in testa quella maledetta canzone, non cascarci! si raccomandò Giacomino.
Ebbe inizio il rituale nella liquida macchia nera riversata sulla strada del delitto, tutti sull’attenti. Una voce, impostata per rendere l’idea di un calvo armato, urlava il nome del defunto e quelli alzavano il braccio, rispondevano “presente” con la stessa eccitazione dei progenitori che acclamavano colui il quale finì acciuffato mentre fuggiva sotto mentite spoglie. In quella atmosfera erano tutti parte di un liquame ribollente di fantastiche recriminazioni e sogni di vendetta.
Terminò il rito, migliaia di occhi si socchiusero ammirando la fantasia collettiva divenuta carne e sudore acre, sotto ascelle virilmente esposte dalla coreografia luttuosa. Il fantasma del regime era divenuto palpabile, lo potevi toccare, sentire il puzzo delle suole di gomma e delle testone tonde brillanti di sudore ferino.
L’apice del piacere cameratesco sarebbe durato ancora pochi minuti, poi il calo di adrenalina, la stanchezza, il richiamo della realtà, ma c’era ancora tempo per godere.
La folla rumoreggiava ai lati della strada, trattenuta da poliziotti in assetto antisommossa. Il manipolo di corpuscoli neri, brulicante come insetti necrofagi, veniva difeso dai possibili attacchi di cittadini romani disarmati, giovinetti che accompagnavano i nonni, vedi tesoro? Studia e impara, altrimenti diventi così. Giornalisti e curiosi, venditori di souvenir, saltimbanchi e zucchero filato. Una piccola folla accorsa a vedere lo spettacolo degli uomini a passo d’oca, guarda papà, quello somiglia al signore dell’edicola, perché urla come un matto in mezzo a quei signori buffi?
All’improvviso un buontempone decise di esprimere la propria opinione sullo spettacolo appena andato in scena, quindi, inspirò profondamente, trattenne l’aria per caricare di potenza il messaggio, attese l’attimo in cui i sensi sembrano venir meno e intonò lo spernacchio più potente che avesse mai prodotto in tutta la sua esistenza, come se lo serbasse per un giorno speciale. Riuscì a restare in equilibrio su quella vibrazione per diversi minuti, finché l’intonazione si fece calante, e allora si aggiunse un anziano che
raccolse la staffetta e riuscì a contribuire per 30 secondi. Ma ecco una bambina con un viso insolente raccogliere la pernacchia e proteggere quella melodia insieme a due compagni di scuola che
sapevano fare anche il controcanto. Una dopo l’altra si alzarono in coro decine e decine di pernacchie, lunghe e profonde, leggere e a scoppio, alte, baritonali, semplici e ripetute, ognuno contribuì
secondo le proprie capacità.
Come una celestiale sinfonia, ognuno espresse esattamente ciò che aveva nel cuore. Come una preghiera, l’inno sacro raggiunse Dio che se ne compiacque e rispose lanciando sulla marea nera una copiosa tempesta che costrinse il plotone a sciogliere le righe, tra gli applausi degli spernacchiatori.
Suelle si accorse che gli stivaloni di Zara erano completamente rovinati, non avrebbero marciato neanche sulla tangenziale, quindi alzò un pugno al cielo e disperata bestemmiò.
Quel giorno di gennaio fu scritta la più bella pagina di Resistenza del ventunesimo secolo.

©Ale Ortica

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