RICORDARE
C’è una mano. È simile a quella della mia mamma, solo che questa mi afferra con forza e mi trascina per terra. Sbatto. Sugli spigoli delle sedie, su quelli dei mobili. Colpisco altri bambini, mentre vengo trascinato via. Non ho nemmeno tre anni e non so perché questa mano prenda me. Mi lascia in una stanza, con la schiena al freddo. Mamma me lo dice sempre di non stare disteso con la schiena nuda sul pavimento, ché poi devo prendere le medicine, pure quello sciroppo cattivo. Ma quella mano mi lascia lì, e poi cerca l’interruttore. Spegne la luce. Chiude la porta. È tutto buio. Io ho paura del buio.
Il dottor Romano mi ha detto che qualcosa è rimasto chiuso nel profondo di una stanza, dentro la mia testa. Mi guarda spesso negli occhi e qualche settimana fa mi ha detto che è necessario che io ritorni in quella stanza, che apra la porta e trovi il coraggio di vedere quello che c’è dentro. Non esiste una via diversa che non sia questo percorso a ritroso. Poi mi ha offerto la sua mano. Io l’ho stretta e ho iniziato a ricordare. Una storia di mani. Noi siamo le nostre mani, mi ha detto.
Ricordare è come un po’ morire. Tu adesso lo sai. Perché tutto ritorna anche se non vuoi.
C’è una mano. Ha il nero sotto l’unghia dell’indice e non voglio che tocchi il purè che ho nel piatto. Eppure lo tocca. Lo prende e lo spalma sulla punta e me lo caccia in bocca a forza. A me si riempiono gli occhi di lacrime perché mi fa schifo eppure il dito sporco entra, raschia il palato, ferisce le gengive. Allora piango, perché non ho ancora tre anni e quel dito non è quello di mio padre, che mi sporca il naso con la panna delle fragole, che mi fa ridere, che mi sfiora. Piango e vomito. Sul piatto. Allora quella mano non prende più il purè. Mi colpisce forte il volto. E poi prende altro. Me lo ricaccia in bocca.
Il dottor Romano resta spesso in silenzio, quando parlo. Non mi contraddice mai. Poi se ne esce qualche volta con delle frasi che mi lasciano di stucco. Tipo quando mi ha detto “Lei ha sofferto molto, da bambino, e ha costruito un muro”. Oppure l’altro giorno, quando mi ha chiesto una cosa strana: “Tolga la colpa di quel che è successo da se stesso. Non c’è bisogno di darla a qualcun altro, solo, non è stata colpa sua”. Ha ragione. Però la colpa a qualcuno bisogna darla. Sempre.
E scordare è più difficile, ora sai che è più difficile, se vuoi ricominciare.
C’è una mano. Mi fa alzare dal banchetto o dal tappeto blu dove devono restare i giochi. Mi accompagna verso l’uscita e io non resisto mai: l’ultimo tratto di corridoio corro. Anche se non ho ancora tre anni e il più delle volte, quando arrivo a due passi dalla mamma e dal babbo, cado. Pensano che sia goffo, ma è più una paura che si scioglie. È come sentirsi salvi. Stretto nell’abbraccio di mio padre che mi solleva, mentre mia madre mi infila il cappotto, osservo le loro mani e le stringo con le mie, piccoline. Una voce alle mie spalle dice che sono stato bravo, ho mangiato anche il purè. Dovete dirci come lo fate, perché a casa non lo vuole mai, dice mia madre.
Il dottor Romano mi invita ad andare più avanti, mi ci porta piano. Scrivi, mi dice, e io gli do retta. Non sono bravo al pc, ma ci provo. Così scrivo e mi rileggo. È un percorso di giorni. Se scrivo la parola “giorni” troppo svelto, sbaglio ed esce “gironi”. Io ci credo, ai segni. Arrivo al segno che percorre di traverso le nocche della mia mano destra. Nessun punto di sutura, solo cerotti e messi male. Se stringo il pugno la linea si allarga. “Come se l’è fatta, quella cicatrice?” mi chiede un giorno il dottor Romano.
Ricordare. Come un tuffo in fondo al mare. Ricordare. Quel che c’è da cancellare. E scordare…
C’è una mano. Trema mentre appoggia una scatoletta di tonno. E poi bicarbonato. Piselli surgelati. Una bustina di nocciole sgusciate. E una scatola di purè di patate in fiocchi. Le rughe mi parlano di un’età che potrebbe essere quella giusta. Le falangi si muovono come se ricordassero bene ogni piccola o grande colpa. La punta delle dita che sbianca alla stretta della busta di plastica. L’anima si nasconde lì, quando viene scoperta, io lo so. Ci sono poi le mie dita che vibrano mentre batto i prezzi e scricchiolano quando do qualche moneta di resto. Si rilassano solo quando chiudo la cassa.
Il dottor Romano mi chiede come vadano gli affari. Gli rispondo che il nostro minimarket è un’istituzione in paese, che prima di me ci ha lavorato mio nonno e dopo di lui mio padre. Puntiamo sulla qualità, l’unico modo per sopravvivere ai grandi centri commerciali. Non mi lamento. Poi torniamo ai sogni. E lì ritrovo tutti i miei vecchi compagni di giochi. Quelli che come me ce l’hanno fatta. Quelli che non sono andati avanti. Quelli che non hanno saputo dimenticare ciò che io sto cominciando a ricordare.
… e scordare. Finiranno gioie rare. E scordare e scordare perché perdi cose care.
C’è una mano. Sgocciola sangue dalla punta delle dita. È la mia. Il sangue, invece, non lo è. È tutt’intorno, sulla spesa rovesciata per terra, sulla scatola di purè di patate in fiocchi. Deve essere stato un suo dente, all’ennesimo colpo. Non posso andare al pronto soccorso, dirò di essermi tagliato mentre preparavo il prosciutto. C’è una stanza buia, tipo quelle dove venivo rinchiuso da bambino, ma sta sotto casa mia. Quando posso, quando riesco, solo le persone giuste, io le porto qui. Trovo sempre il modo. Sono così tante le volte che avrei voluto prendere Claudia per mano e portarla quaggiù. Da quando mi ha detto che a lei piace il purè.
Il dottor Romano mi spiega che c’è stato un evento scatenante. Nella vita delle persone possono esserci eventi che funzionano da miccia. Sono sempre legati ai ricordi. Il fatto che la mia nuova relazione con Claudia mi abbia spinto a rivolgermi a lui è un buon segno, dice. Anche perché io credo ai segni. Arriveremo a trovare un equilibrio, cancelleremo questo malessere, ne sono sicuro. Lo farò per Claudia. Perché la amo. E non voglio portarla di sotto. Stasera guarderemo un vecchio film di Giuseppe Tornatore con Gerard Depardieu. Poi faremo l’amore.
Ricordare è come un po’ morire. Tu adesso lo sai. Perché tutto ritorna anche se non vuoi.
© Alessandro Morbidelli, 2016