STRUMENTALE
Mi accorgo che il mio mento si abbandona a se stesso, come un supporto stanco, un foglio di carta piegato troppe volte per appianare la gamba corta di un tavolino da bar, questo tavolino da bar.
Quasi non riesco più a capire se sto seduto accanto o sotto la gamba, o se io sono sopra e il mio mento sotto la gamba. Mi viene da dormire, abbandonato qui sopra. Mi mordo il labbro.
C’è una musica di sottofondo che si adatta alla perfezione.
La prima ad arrivare è A. Si siede davanti a me con movimenti bruschi e decisi. L’ho messa in cima alla lista perché è un tipo puntuale. Non ha tempo da perdere, sapevo che sarebbe venuta.
Non dice niente. Aspetta che sia io a parlare.
Lascio scivolare la punta della lingua tra gli incisivi. Se qualcuno mi colpisse da dietro me ne partirebbe un pezzo.
Il cameriere ha l’aria stanca e la barba di più giorni. Chiede se la signorina prende qualcosa, lei risponde che andrà via subito e che non prende niente.
A. non mi guarda mai. Si accende una sigaretta e la spegne subito. Sbuffa e guarda l’orologio. Poi, in ultimo, mi fissa per un attimo, con occhi che vengono dal nord, dal freddo e dal vento. Dopo si alza e se ne va.
Deglutisco.
Il cameriere mi lascia in pace per qualche minuto, poi torna con aria interrogativa. Gli indico il bicchiere vuoto. Annuisco.
B. arriva con dieci minuti di anticipo. È sempre stata nervosa e figlia dell’ansia.
Si siede. Sposta la ciocca di capelli biondi dalla fronte. Mi guarda e prova a stiracchiare un sorriso. Aspetta anche lei.
Con la punta della lingua tamburello sul palato. Respiro regolarmente, ma non dico niente.
«Cos’è, una cosa tipo Marina Abramovich che sta seduta ferma e non dice un cazzo?» sbotta a un certo punto.
La osservo. È bellissima, davvero. Ha gli occhi da artista e il naso da truffatrice. Le labbra, quando sono così tese, mi rivelano che un giorno saprà come soffrire senza darlo a vedere.
«Fammi capire…» continua, «… scompari, senza dire o scrivere niente, per mesi, forse anni, nemmeno mi ricordo quanto tempo sia passato. Poi quel messaggio del cazzo… io vengo in questo bar dove ti trovo bello piazzato, non mi hai nemmeno aspettato per ordinare, e, per finire, non dici niente. Rimani in silenzio…»
Vorrei chiederle se la sente, la musica in sottofondo.
Vorrei che a parlare al posto mio fosse uno strumento e in effetti credo che sia così.
Continuo a osservarla. I movimenti di lei che si alza, afferra il mio drink e me lo rovescia sopra le gambe, li vivo al rallentatore. Non faccio una mossa. Nemmeno mi volto per seguire con lo sguardo i suoi passi svelti.
Tra B. e C. ho lasciato mezz’ora soltanto. Sapevo che sarebbe finita così.
Prima dell’ora esatta ordino di nuovo da bere. Poi aspetto.
Dopo l’ora esatta sorrido perché non sono sorpreso. Ho tutto il tempo del mondo per ascoltare e per divertirmi giusto un po’, perché mi è venuto a caso, distribuirle in ordine alfabetico. Non l’ho fatto mica apposta.
C. non si presenta.
Si alza un po’ di vento. Sento freddo dove sono bagnato.
Il sole tramonta alle mie spalle. Il riverbero violaceo della luce che annega si intrattiene con la musica di sottofondo, li immagino darsi pacche sulle spalle e fumarsi una sigaretta insieme.
Passa un’ora intera.
È ormai arrivata la sera quando si avvicina M.
Si siede. I neon del bar sono diventati insistenti, eppure sembrano un misero riverbero di notte a confronto dei suoi occhi.
M. inspira. Abbandona la schiena sulla sedia. Poi butta via l’aria e un sorriso. Appoggia il volto sulle mani. Chiude gli occhi. Il vento le muove appena i capelli corti.
Un nuovo pezzo strumentale si siede qui con noi.
M. non parla e non chiede. Esiste, e questo mi basta. Torno a pensare che mi addormenterei, qui e adesso, e questa volta con lei accanto.
Da lontano si sentono le voci di chi ha molto su cui ragionare.
I silenzi di quelli convinti, invece, sono altrove, un altrove adagiato spesso sulle note di una musica di sottofondo che si assottiglia.
I silenzi di quelli che sanno tutto e che l’hanno sempre saputo sono nascosti come i sogni che non si possono raccontare, quelli che non si realizzeranno mai.
M. allunga le mani verso le mie. Le afferro. Le nostre dita si intrecciano. Le spalle si incurvano. I volti si avvicinano. I respiri diventano uno.
M. ha capito. Che non voltarsi mai è la soluzione di tutto.
Rimane ancora un po’. In silenzio. A gustarsi lo strumentale di sottofondo.
Poi guarda l’orologio. Sospira.
Mi bacia le mani. Si alza.
Mi bacia la fronte. Se ne va.
Mi bacia l’anima. Non si volta.
Così scompare nella notte.
E un attimo dopo arriva L.
L. è il marito di M.
Si avvicina al tavolo. Stringe un martello in mano.
Ha la bocca storta. La bocca di chi nella vita ha parlato troppo e poi si è perso tra una folla di parole.
Io invece sto bene. Ho ascoltato e ho capito. Ho quello che mi serviva.
Mi alzo. Gli do le spalle e mi incammino.
Mi segue, sento i passi nella ghiaia. La musica rimane indietro, si affievolisce.
Arriviamo al parcheggio, è isolato dal resto. Io, una macchina, nemmeno ce l’ho.
Del primo colpo sento solo il fendersi dell’aria.
© Alessandro Morbidelli, 2017