IL PROSSIMO DOLORE
Ci sono posti dove è impossibile passare senza avvertire un brivido che parte dalla nuca e corre lungo la spina dorsale.
Quando passava davanti al cancello grigio del cimitero della sua città non poteva resistere, doveva fermarsi e gettare uno sguardo al di là delle sbarre e lasciarlo vagare lungo il viale, fino in fondo o, almeno, fino a dove la sua vista glielo permetteva. Perché il cimitero era sterminato e non se ne vedeva la fine. Le piaceva fermarsi lì. Me lo aveva confessato una sera mentre camminavamo insieme per uno dei nostri giri senza meta.
Una città nella città, questo era il cimitero.
Una città quieta, senza ritmi, rumori, porte sbattute, urla. Una città annegata nel silenzio, soprattutto di notte.
Incastrato in mezzo alla frenesia della metropoli, era come se oltrepassato il cancello qualcuno girasse un interruttore e spegnesse il caos.
Tutti i cimiteri sono solitari. Bolle di desolazione, ordine e immobilità.
Sospensione.
Pace.
«E che cazzo, ti vuoi muovere?» Marco la fissava con disprezzo.
Eleonora non rispose, si limitò a posare un piede dietro l’altro, cercando di non pensare alla fatica che quella semplice operazione le costava.
Vederla camminare era come vedere un ramo di betulla agitarsi nel vento: scomposto, sottile, elastico, indistruttibile.
Quaranta chili di ossa e carne che barcollavano sul marciapiede, gli occhi sgranati sul mondo in attesa del prossimo viaggio.
«Merda, sei strafatta. Neanche ti reggi in piedi. Eddai.» La mano forte del ragazzo afferrò il suo braccio e la strattonò. Come scuotere un foglio di carta velina. La lasciò andare di colpo, con un gesto carico di ribrezzo.
Eleonora vacillò sulle gambe magre, sbatté le palpebre come un bambino stupito e riacquistò l’equilibrio. Era strano, a guardarla avreste giurato che si muoveva con leggerezza, invece, io lo sapevo, per lei, ogni movimento richiedeva forza e determinazione.
«Ti muovi? Guarda che ti mollo qui, eh?» Marco fece tre passi, si fermò e si voltò di nuovo a guardarla. “«Stronza» sibilò.
Eleonora, la sua creatura bionda, così la definiva.
Era stata bella come una cascata di montagna, con la stessa potenza travolgente. A guardarla ora assomigliava più a una pozzanghera in cui tanti avevano sguazzato.
Non fosse stato per quegli stupendi occhi verdi che, incredibile, continuavano ad affascinarlo e, soprattutto, non fosse stato che Eli continuava a essere una fonte primaria di guadagno, l’avrebbe già scaricata da tempo, glielo potevo leggere nello sguardo.
Li conoscevo da sempre e da sempre odiavo il ribrezzo che Marco riversava su di lei, ma quel sentimento era niente se confrontato a ciò che provavo per Eleonora, per quel suo essersi arresa di fronte alla vita, quel suo continuo viaggiare con compagnie sbagliate, aghi nelle braccia e cervello disfatto.
Li avevo seguiti perché sapevo che il momento era arrivato.
Quando lo feci non provai gioia, ma un dolore sordo e continuo.
Ma andava fatto e solo io potevo.
Ci sono corpi colati nel cemento di cui sono state perse le tracce, che nessuno cercherà mai, a parte forse qualche madre in lacrime infilata in abiti neri.
Se dovessi mettermi a contare tutti coloro che ho accompagnato alla fine della loro vita, non smetterei più.
Non ricordo con esattezza quando tutto è iniziato. Non ricordo quando ero diverso, mi sembra di essere stato così da sempre.
A volte mi pare di vivere in una sorta di macchia nera che si allarga fino a coprire il passato.
Una sola cosa so con certezza: questo è ciò che faccio.
Per quanto possiate fantasticare e scrivere e raccontare esiste solo una semplice, banale risposta: certe cose devono essere fatte e taluni sono stati scelti per farle.
Tutto qui.
Né fortuna né sfortuna, né buoni né cattivi; solo un compito che qualcuno deve svolgere.
Non me ne vanto, ma non riesco nemmeno a provare vergogna. Solo questo dolore attutito che mi accompagna sempre più spesso in certi momenti.
So di persone che si esaltano, complicano tutto con azioni efferate, s’illudono di essere speciali.
Io so di non esserlo.
Sono uno come tanti, con un compito da svolgere e cerco di farlo al meglio.
Quando ero bambino mi avevano chiuso in una grande casa piena di altri bambini come me. Un posto in campagna, con niente attorno se non prati incolti. Un posto che dalla città non si vedeva e nemmeno si poteva immaginare. Un posto che tutti parevano aver un gran fretta di dimenticare appena depositati i piccoli ingombri col moccio al naso.
Una casa senza colori.
Allora non capivo, ma anche allora cercavo di fare ciò che si aspettavano da me e cercavo di farlo nel modo migliore.
Guardavo i miei piccoli compagni, schiacciati l’uno contro l’altro eppure così distanti, chiusi come in piccole bare di vetro, piangere in silenzio o dibattersi tra urla e strilli.
Non ce n’era uno vestito in modo decente. Sembravamo tutti una massa di arlecchini tristi, con quei vestiti raccattati chissà dove, forse dono di gente di buon cuore.
Noi bambini della grande casa non ci volevano vedere ma eravamo oggetto delle loro buone azioni.
Io non piangevo mai.
Osservavo, cercavo di capire perché stavo lì.
E una mattina di novembre ci riuscii. Ad aiutarmi fu un bambino che dormiva nel letto accanto al mio.
Da giorni piangeva e piangeva, pareva che le lacrime e i singhiozzi lo stessero consumando. Era impossibile non sentirlo e tentare di dormire.
Il prete-guardiano prima cercò di calmarlo, poi lo picchiò. Non accadde nulla, lui continuava a piangere. A piangere e a guardarmi.
Mi guardava come il cavallo con una zampa spezzata che avevo visto abbattere qualche tempo prima, prima di arrivare nella grande casa. Si era arreso, proprio come avrebbe fatto Eleonora alcuni anni più avanti. Dentro i suoi occhi, a parte le lacrime, non c’era niente. Nessuna speranza, nessun desiderio, solo un’infinita, attonita disperazione.
Capii allora cosa dovevo fare.
E non fu doloroso.
Né per me né per lui.
Ma allora ero giovane e il dolore sordo e continuo era ancora là da venire.
Anche il prete-guardiano terminò la sua vita quella notte.
Dove c’è una vittima c’è sempre un carnefice e nessun altro bambino avrebbe ricevuto botte. Non da lui, almeno.
Le vite di queste persone sono solo minuscole onde che si infrangono contro di me.
Non le giudico, non tento di capire, non mi lascio andare alla passione; eseguo un compito, pareggio i piatti della bilancia, non mi assolvo e non assolvo.
Uscire dalla grande casa e naufragare in un incubo fu la stessa cosa. Mi pareva che tutto si muovesse troppo veloce senza lasciarmi il tempo di posare gli occhi sulle cose e le persone, e comprendere.
I colori erano troppi e troppi i suoni, gli odori. Una giostra impazzita su cui tentavo di stare aggrappato.
Passai da una famiglia all’altra come un pacco postale, qualcosa di cui liberarsi in fretta. Dicevano che ero troppo introverso, quasi autistico. In realtà non facevo altro che osservare e agire, in silenzio, senza clamori, senza che nessuno se ne accorgesse.
Alcune persone sparivano, troppo deboli per trovare la forza di continuare a vivere. Li aiutavo. Altri troppo prepotenti per avere l’intelligenza di far vivere in pace i loro simili. Li toglievo di mezzo, come il prete-guardiano prima, Marco poi.
Tanti che ne ho perso il conto.
Di mestiere faccio il rappresentate, non solo di farmaci. Ciò che rappresento davvero sarebbe difficile spiegarlo. Complicherei le cose e non potrei più agire al meglio, come amo fare.
La morte arriva sempre silenziosa, discreta, infallibile.
Se non fosse per questo strano dolore che mi accompagna da qualche tempo, potrei ritenermi soddisfatto. Non ho mai fatto soffrire nessuno, anche se so che è una realtà difficile da accettare.
La sola volta in cui mi sono trovato in seria difficoltà è stato quando ho incontrato Paride.
Viveva sotto i ponti, o sulle panchine del parco, o sui soffioni dell’aria della metropolitana. Non amava i posti chiusi, non si era mai rivolto a un ospizio se non per qualche pasto a base di minestra e carne dura.
Quando ci incontrammo era una deserta sera di dicembre. Tirava un’aria fredda e pulita per una città che sprofondava nel cemento e nei gas di scarico.
Camminavo da circa un’ora senza pensare a nulla, come mi capitava spesso. Ero solo due gambe che portavano in giro un corpo. Di tanto in tanto lasciavo vagare lo sguardo tra le ombre del parco.
Soltanto un paio di macchine avevano rotto la quiete della sera rombandomi al fianco e sfrecciando via.
Accadde a non molte decine di metri da me e vidi ogni cosa come si trattasse di un film.
Paride sedeva sul marciapiede, fuori dal cancello del parco, imbottito in vari strati di abiti, uno più lercio dell’altro. Il fiato si rendeva visibile attraverso nuvolette bianche. Piccole numerose nuvolette. Ansimava. Peggio, tentava di recuperare il fiato dal fondo dei polmoni dopo che un ragazzetto vestito di pelle lo aveva colpito più volte con calci e pugni.
Corsi nella direzione in cui era scomparso il giovane, passando davanti al barbone ansante. Non c’era pericolo che il vecchio si allontanasse, quindi potevo prima occuparmi dell’altro.
Non fu difficile raggiungerlo. L’idea di essere stato visto da qualcuno e seguito, non lo aveva neanche sfiorato. Il bello di una grande metropoli è che tutto può accadere senza che nessuno se ne accorga. O se ne preoccupi.
Non fu nemmeno difficile occuparsi di lui.
Quando tornai dal vecchio mi inginocchiai.
«Tutto bene?» chiesi. Era una domanda idiota e non sapevo nemmeno io perché gliel’avevo rivolta. Era la prima volta che socializzavo con qualcuno che avrei aiutato a terminare il viaggio.
«No» rispose il barbone. Aveva una voce baritonale e più che parlare borbottava.
Mi scappò un sorriso. Nonostante le condizioni in cui era ridotto, la grinta non lo aveva abbandonato. Non appariva come uno che si era arreso, tutt’altro.
Feci per alzarmi. Quell’uomo non aveva bisogno di me.
«Cosa gli hai fatto?»
Le parole, aggrovigliate in un borbottio eppure chiarissime, mi falciarono le gambe.
Lo fissai dritto negli occhi e lui non abbassò lo sguardo.
«Come ti chiami?» domandai. Anche questo non so perché lo chiesi. Avevo paura. Troppe cose cominciavo a non sapere.
«Paride.»
«Vivi qui?» e indicai con un gesto vago il parco. Mi disse in poche frasi la sua storia. Niente posti chiusi. Ne aveva visti abbastanza in gioventù. Sapevo cosa intendeva: grandi case senza colori.
«Cosa gli hai fatto?» ripeté.
Era inutile mentirgli. Paride sapeva. Incredibilmente avevo trovato qualcuno che aveva capito.
Per la prima volta feci qualcosa che non volevo fare.
Non fu facile perché Paride amava la vita e questo lo rendeva forte. Quasi più forte di me.
Fu allora, credo, che cominciai a percepire quel dolore sordo.
Ci sono cose che mi mancano. Mi piacerebbe sentire dei passi nella mia casa e fruscii femminei e risatine nervose e profumi e strofinii di sottovesti. Invece me ne sto da solo, immerso nella quiete di un appartamento impersonale, dove l’unica cosa che sento davvero mia è la pila di scatoloni colma di libri.
Devo spostarmi di continuo, e anche se non dovessi lo farei comunque. Qualcuno ha detto che casa è ovunque un uomo si senta bene. Mi piacerebbe crederlo. Mi piacerebbe sentirmi accettato dalla terra che calpesto, dall’aria che respiro, dagli alberi che vedo, dalle persone che incontro. Mi piacerebbe accettarle, amarle. Ma non posso.
L’unica volta in cui mi capitò d’innamorarmi (tutto ciò che è stato importante per me ho permesso capitasse una sola volta) mi sentii come una palla che rimbalzava sull’asfalto. Toccavo terra per un secondo e speravo di fermarmi e insieme di schizzare via.
Lei accarezzava in continuazione le mie mani e diceva che erano bellissime. Io mi limitavo a fissarla e a respirarne l’odore. Provai la tentazione di parlarle, di raccontarle ciò che facevo. Ciò che davvero facevo.
Trascorrevamo il tempo avvinghiati l’uno all’altra. Mi pareva che lei fosse “casa” perché con lei stavo bene. Non c’erano domande risposte obiezioni curiosità. Solo un tranquillo viversi.
Ero felice.
Durò un mese. Fu terribile e bellissimo. Non voglio ricordarlo. Non posso permettermelo.
Non è necessario fare ciò che faccio io per non voler ricordare momenti d’amore. Succede alla maggior parte della gente: è difficile convivere con il peso di una felicità perduta. Meglio dimenticare.
Ero andato troppo vicino al dirle la verità, e dopo? dopo cosa sarebbe successo? Avrebbe capito? Se non lo avesse fatto non mi avrebbe lasciato vie d’uscita.
«Non mi lascerai mai, vero?» Quando me lo chiese risposi: «Mai» e il giorno dopo partii.
Solo.
Questo raccono è stato pubblicato sulla rivista Linea D‘ombra tanto tempo (1999) fa grazie a Laura Grimaldi.
©Barbara Garlaschelli