UN PASSO DOPO L’ALTRO
E così il grande giorno è arrivato. Cinquanta passi e tutto sarà diverso. Cinquanta passi e la mia Demetra spiccherà il volo. Strano come mi vengano in mente solo luoghi comuni.
Cinquanta passi. Li ho contati e ricontati. Non l’ho detto a nessuno, nemmeno a Lucia, ma sono venuto in questa chiesa non so quante volte e ho percorso la navata centrale non so quante volte, facendo il percorso che sto rifacendo adesso. Ma senza Demetra al fianco. Da solo, davanti agli occhi perplessi di alcune anziane donne che, inginocchiate, stavano pregando. Hanno alzato la testa vedendomi passare, vedendomi camminare lento lungo la navata, dalla porta all’altare. Avanti e indietro. E poi ancora. E ancora. Non saprei spiegarlo nemmeno io il perché. Forse ho cercato di abituarmi all’idea. Forse volevo allenarmi per fare bella figura, per imprimermi bene il percorso e non prendere inciampi.
Demetra è meravigliosa nel suo abito color avorio. Quando questa mattina è uscita dalla sua stanza e mi è venuta incontro, raggiante, vestita del suo abito stile impero (lei e Lucia mi hanno spiegato che si dice così), elegante e austero, i capelli raccolti in uno chignon alto con alcuni riccioli che le sfuggivano sul viso, ho pensato che stavo per cadere a terra dall’emozione.
«Sei bellissima tesoro» sono riuscito a dire.
Lucia, al suo fianco, la fissava. «È più che bellissima la nostra bambina» ha detto.
E Demetra è scoppiata a ridere. «Mamma… sei la solita esagerata.»
Ma non è vero. Questa volta Lucia non ha esagerato. Mi volto a guardare mia figlia mentre ci avviciniamo all’altare – ormai i passi sono quaranta – e la vedo più che bellissima. Lei mi dà una rapida occhiata. È calma e sorridente. Non ha mai smesso di sorridere da quando ha aperto gli occhi questa mattina.
Demetra ha sempre sorriso, in tutta la sua vita, ma non in modo falso o forzato o come una bambolina stupida. No, Demetra ha sempre sorriso perché è una persona che ha qualcosa dentro che la rende forte e positiva. Penso, con un certo orgoglio, che forse io e sua madre c’entriamo con questo qualcosa. Le siamo sempre stati vicini, abbiamo sempre parlato con lei, di tutto. Non c’è stato un solo momento nella vita in cui non abbiamo trovato del tempo da dedicarle. Sempre, sia che fossimo impegnati per il lavoro, o avessimo dei pensieri. Demetra era davanti a tutto. Abbiamo anche cercato di non soffocarla, di renderla autonoma e indipendente. Genitori non si nasce, non sapevamo nemmeno io e Lucia come fare, ma lo abbiamo fatto al nostro meglio. E il risultato è questa donna di ventisei anni, forte e serena, che ha saputo fare delle scelte – l’università, il lavoro, e adesso un marito. È questa donna che sto accompagnando all’altare e che tra qualche momento avrà un altro uomo come punto di riferimento nella vita.
Guardo avanti e lo vedo. Fabrizio, il futuro sposo. Per alcuni secondi provo la forte tentazione di strangolarlo. Non mi importa che sia un bravo ragazzo, che da quando Demetra lo ha conosciuto sia ancora più felice, che i suoi genitori siano delle bravissime persone – anzi, eccoli lì, in prima fila, tesi e sorridenti -, che abbia un buon posto di lavoro, che Demetra lo ami sopra ogni cosa e che lui ami lei. Per questi brevissimi secondi, tutto ciò non ha la benché minima importanza. Quell’uomo sta per portarsi via la mia bambina. E io vorrei strangolarlo.
«Andrà tutto bene papà» mi sussurra Demetra, quasi avesse letto nella mia testa e io mi sprofonderei dalla vergogna.
Annuisco e le sorrido. Ma non dovrei essere io a tranquillizzare lei? Invece, lei è calma e serena, come se questo non fosse il giorno del suo matrimonio, ma una passeggiata.
Trentadue passi.
Mi guardo attorno. La maggior parte delle persone che sono qui non le conosco. Parenti di Fabrizio e amici suoi e di Demetra. Qualcuno, però, sì, lo conosco. Milena, per esempio. Eccola lì. La migliore amica di Demetra, una delle testimoni. Sono amiche da sempre. Hanno frequentato elementari, medie e superiori, insieme. È come se fosse un’altra figlia. Me le ricordo quando le portavamo a sciare. Demetra spericolata e incosciente e Milena terrorizzata che capitombolava a ogni piè sospinto. Me le ricordo quando se ne stavano nella stessa stanza e trascorrevano ore e ore a parlare. Di tanto in tanto Lucia passava accanto alla porta e diceva: «Dormite!». Demetra rispondeva: «Sì mamma» e dopo dieci minuti le sentivi bisbigliare e ridere. La guardo ora, Milena. Una giovane donna bella e dolce che fa l’insegnante di sostegno per bambini disabili. Incrocio i suoi occhi e mi sorride, incoraggiante, tra le lacrime. Sembra che tutti oggi sentano il bisogno di incoraggiarmi. Io contraccambio con un sorriso. O, almeno, mi sembra di sorridere. In realtà la faccia me la sento come addormentata. Come quando si va dal dentista e ti fanno l’anestesia. Me la sento come se appartenesse a qualcun altro. E anche le gambe, non so, hanno qualcosa di strano. Mi sembrano pesanti, come se le scarpe fossero di cemento armato.
Venticinque passi.
La musica risuona nella chiesa e solo adesso la sento. Fino a un momento fa mi pareva di camminare nell’ovatta. Ora, di colpo, mi entrano nella testa mille suoni: le note di Mozart (scelto da Demetra e Fabrizio), i bisbiglii delle persone, l’eco dei nostri passi, il fruscio delle gonne, un bambino che piange. E poi gli odori: l’incenso, il profumo denso dei fiori sparsi intorno, i profumi dei dopobarba e dei deodoranti di tutti quelli che sono qui. Sto per sentirmi male. Sono sicuro che tra pochi secondi rigetterò la colazione.
Venti passi.
Un leggero sudore mi imperla la fronte. Demetra è appoggiata a me e la guardo: fresca come una rosa appena colta, le gote leggermente arrossate, gli occhi che splendono. Per fortuna io non posso guardarmi.
Diciotto passi.
È a questo punto che incontro lo sguardo di Lucia e quasi mi blocco. Non so come faccio a continuare a camminare. Forse è Demetra che mi trascina, non so. Guardo Lucia e sento qualcosa dentro di me cedere. È così bella nel suo abito verde salvia che le lascia scoperte le spalle (ma che lei tiene coperte con un foulard). Mi sembra di vederla nel giorno del nostro matrimonio, trentacinque anni fa. Aveva questa stessa espressione: soddisfatta, felice e ironica. Perché lei sa benissimo ciò che sto provando ora, come sapeva benissimo ciò che provavo allora. Un’emozione così travolgente da confondermi. Solo lei mi conosce così a fondo. Solo lei sa che dietro la facciata di uomo tutto d’un pezzo, razionale sino all’eccesso, c’è un uomo che, a volte, si sente travolto dalle emozioni al punto da averne paura.
Gli uomini sono così. Hanno paura delle emozioni, devono controllarle, comprenderle, incasellarle. Le donne sono diverse, si lasciano andare al fiume della vita, senza porre argini che trattengano il flusso vertiginoso.
Quindici passi.
Lucia. Lucia. Quando l’ho conosciuta avevamo entrambi tredici anni e lei era già una sorta di rullo compressore.
«Voglio diventare infermiera e lavorare nelle camere di rianimazione» mi aveva detto un giorno.
Io quasi nemmeno sapevo cosa fosse una camera di rianimazione e la sua determinazione mi impressionò moltissimo. A tredici anni, Lucia, sembrava una donna in miniatura. Aveva degli stupefacenti capelli neri, lunghi e lucidi come il manto di un gatto e occhi azzurri che sembravano sondarti l’anima.
«E tu? Cosa farai da grande tu?»
«L’astronauta» avevo ribattuto cercando di impressionarla. In realtà non avevo la più pallida idea di cosa mi sarebbe piaciuto fare nell’età adulta. Spaziavo dal pilota di auto all’ingegnere, dal geometra all’archeologo. A fare l’astronauta non ci avevo mai pensato, ma in quel momento mi era sembrato che fosse la risposta più ad effetto.
Lucia mi aveva gettato una lunga occhiata perplessa e non aveva replicato. Io mi ero sentito un perfetto idiota. Credo fu allora che mi innamorai di lei. Lucia, oltre che essere bella, era una con il cervello che funzionava a mille all’ora. Naturalmente non glielo dissi quella volta. Di anni ne passarono cinque prima che le facessi una dichiarazione in piena regola.
Ancora oggi mi sorprendo a pensare al suo “Sì”, che è arrivato senza un secondo di esitazione, esattamente nel suo stile.
Dodici passi.
E il giorno in cui mi ha detto di aspettare Demetra (che naturalmente non sapevamo sarebbe stata Demetra)… Lucia tranquilla e serafica che mi dice: «Tesoro, aspettiamo un bambino» e io che resto lì come un allocco, immobile per non so quanto tempo e poi le lacrime che cominciano a scendermi e lei che mi abbraccia forte: «Tesoro, ti vedessero i tuoi colleghi…»
Già, eccolo qui l’uomo razionale e tutto d’un pezzo, quello che lo chiamano per le questioni delicate…
Dieci passi.
Io lo strangolo quello. Fabrizio. Ma che nome è? Fabrizio. E il cognome? Bignami. Quando lo pronunci sembra che hai della crescenza in bocca. Bignami. E il mestiere? Fisico nucleare, che mestiere è? Non poteva fare una roba più normale, che so, il bancario, l’idraulico, il professore di matematica. No, fisico nucleare. E tra un po’, tra pochi passi, questo fisico – fisico per modo di dire, lungo lungo e secco secco – si porterà via la mia Demetra…
La mia Demetra.
Mia.
Ma dov’era lui al suo primo giorno di scuola, eh? Dov’era? Dov’era quando lei, piccola e paffuta nel suo grembiule bianco, mi chiedeva: «Ma ci devo proprio andare anche domani a scuola? Non è abbastanza un giorno alla settimana?». E dov’era questo fisico quando Demetra ha avuto la varicella e si è riempita di chiazze rosse che sembrava un marziano e si è guardata allo specchio dicendo: «Papà e se mi dipingessi dei petali attorno ai bozzi non sembrerei un prato fiorito?» E durante la sua prima delusione d’amore – a sei anni – quando ha pianto per due ore di seguito perché il suo innamorato – Marco anni cinque – si era fidanzato con un’altra bambina? Dov’era questo Fabrizio, eh? E quando Demetra ha dato il suo primo esame in università ed è uscita in strada togliendosi le scarpe e urlando come una pazza, abbracciando me e sua madre e gridando: «Yeah! Me ne mancano solo altri trenta!»
Dov’era questo tizio che si sta per portare via la mia Demetra? Non può farlo! Non può!
Tre passi.
No, assolutamente no!
Due.
Mi volto e guardo Demetra e sto per dirle: «Amore, ripensaci. Lascia perdere questo fisico nucleare allampanato e torna a casa.»
Ed è in questo momento che guardo Demetra e la vedo. La vedo davvero. Sta fissando Fabrizio e il suo sorriso, se è possibile, mi sembra ancora più luminoso. E gli occhi… i suoi occhi… sembrano diventate due perle nere, preziose e luccicanti. Mi volto e guardo Fabrizio e la sua espressione è talmente rapita e intensa che mi scappa quasi da ridere. È così evidente che in questo momento per lui non esiste niente oltre a Demetra, da essere quasi imbarazzante. Ha un’espressione così innamorata da rasentare il comico.
Un passo.
Andata.
Demetra è accanto a Fabrizio e io sto dirigendomi al mio posto. Mi siedo accanto a Lucia che mi si fa vicino, mi prende la mano e sussurra: «Sai amore che sei più bello dello sposo?»
©Barbara Garlaschelli, 2015 (da Confidenze)