Pepe nero di Antonella Zanca

Dai viaggi si torna con un po’ di tutto.
Dai viaggi torno con quel cibo che credo di non trovare sotto casa. Ci sono, nella mia dispensa, spezie, buste di minestre liofilizzate, ogni tipo di marmellata, di miele, di salse. Bustine di tè e di tisane. E ancora sottaceti e sott’olii.

Ogni vasetto, ogni confezione, ricorda un luogo, un momento, un sospiro, un profumo.

Il pepe della Croazia ricorda il supermercato piccolo ma ben fornito, le ragazze che parlavano solo croato e in croato sorridevano, sempre, proprio a noi; i profumi di spezie nel piccolo corridoio ricco di tutto, anche di erbe sconosciute che mi affrettavo a comprare e che poi rimasero lì, sui miei scaffali, a far colore, mai utilizzate.
Il pepe in grani, però, sembrava proprio uguale al nostro, ma non ne avevo, per cucinare in casa, e fu gioco forza comprarlo.

Rientrati, eccolo lì, ad arricchire l’angolo del pepe, insieme a quelli comprati in Corsica, in Sardegna, ad Amsterdam e persino in Nuova Zelanda, un barattolino piccolo vicino a quello più grande dell’Alto Adige, che alla sua destra ha quello di Salisburgo, unici due ad essere vicini di casa con il senso dell’appartenenza geografica.

Pepe nero, rigorosamente nero, visto che nonna Pina diceva che era l’unico capace di arricchire un piatto. Lei lo pestava nel mortaio, io lo lascio vivere nel macinapepe fino al momento fatidico della grattugiata, quando serve.

In questi giorni, serve più del solito, grazie all’incontro con una bella persona che mi ha fatto amare di nuovo il pepe pestato, il suo sapore intenso e fresco, la voglia di fare presenza nei miei piatti, quasi ad aggiungere vita nuova al solito tran tran.

Sono fortune, gli incontri. Sono fortunati gli scambi, gli sguardi, l’intesa che nasce senza neppure sapere il perché. Così, grata alle combinazioni dei miei giorni, ringrazio la buona stella che mi ha fatto seguire passo passo i preparativi per la “cacio e pepe” più buona che io abbia mai mangiato.
Ricette se no trovano ovunque, ma quella Silvia appassionata che ha messo grazia e passione in ogni passaggio della cottura, non riuscirò a dimenticarla. Ho nelle orecchie il rumore del pestello di marmo nel mortaio e nelle narici gli effluvi del pepe, prima pestato e poi tostato in padella, a riempire la stanza, a trasportarci lontano, in un mondo ricco solo di noi.
Oggi, rientrata al volo da commissioni e impegni, mi accorgo che la voglia di pepe ad arricchire una pasta è rimasta dentro di me.

Con calma mi arrangio, il mortaio non ce l’ho: un foglio di carta da cucina ad avvolgere i grani, che non sono mai troppi. Poi il pestacarne di acciaio, quello pesante, e giù botte: sono botte cattive ma attente. Le prime le lascio andare con rabbia, quasi a ricordare le cose brutte vissute ieri. Poi mi tranquillizzo e penso al pepe, al suo profumo sovrano e cerco di livellarne la presenza all’interno della tasca creata con il foglio di carta. Che cerca di sbriciolarsi e dai buchini si sente il profumo, intenso e vero, che mi arriva come una carezza, la carezza di Silvia, penetrante e precisa, come la sua parlata.

Lo tosto, il pepe, aprendo le finestre. Ecco il vociare dei bimbi, l’aria di primavera, il ricordo e la nostalgia, quella bella, di giorni buoni, per noi e per altri.

Nel segno del pepe.


Letto da Antonella Zanca

©Antonella Zanca, 2019

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