
Il giorno in cui morì zio Guglielmo pioveva a dirotto. Era un lunedì di un settembre travestito da novembre e il grigio sembrava aver ammantato l’intero paese e la campagna circostante.
Anche il giorno del funerale, l’acqua continuava incessante a riversarsi da un cielo cupo di nubi dense e gravide.
Zio Guglielmo era sempre stato un inguaribile ottimista e la domenica sera, l’ultima della sua vita terrena, aveva sbirciato fuori dalla finestra e aveva sentenziato: «Chissà che bel sole domani. Si sta preparando, ne sono sicuro». Questa sua affermazione mi venne in mente proprio mentre, con ombrello, impermeabile e stivali, guadavo il parcheggio del cimitero cercando di non affogare in una pozzanghera.
Da un paio di mesi, all’interno del camposanto comunale, era stata costruita una sala per le commemorazioni civili e fu lì che demmo l’ultimo saluto a zio Guglielmo. La bara, ricoperta da una bandiera rossa con falce e martello ben visibili nell’angolo in alto a destra, era quasi sommersa da enormi mazzi di garofani rossi e la stanza raccoglieva a stento tutti quelli che erano venuti a lasciargli un pensiero o una parola. C’erano i rappresentanti dell’A.N.P.I. locale e provinciale con le bandiere e la foto di un allora giovanissimo partigiano Guglio, c’erano quelli del sindacato, con cui lo zio aveva passato il tempo a litigare negli ultimi quarant’anni, c’erano gli ex compagni del PCI e c’erano i figli e i nipoti degli amici di una vita.
E poi c’eravamo noi: la sua grande, disordinata, stramba famiglia. Primo di sette figli, zio Guglielmo era stato anche il primo ad andarsene, un mese dopo aver compiuto 91 anni. Gli altri erano tutti lì, a cantare bandiera rossa: zio Oreste, zio Gigino, zio Felice, zia Onelia, zia Pinen e mia mamma Carmen, l’ultima nata, arrivata per caso vent’anni dopo il primogenito, sopravvissuta per miracolo a un parto prematuro e chiamata così in onore della Madonna del Carmine, a cui la nonna Maria aveva chiesto la grazia di sopravvivenza, con grande indignazione del nonno Livio, ateo, gran bestemmiatore e comunista.
Eravamo e siamo un piccolo esercito: fra genitori, fratelli, zii e cugini, non ho memoria di feste del 25 aprile o del 1° maggio con meno di trenta persone a tavola, con necessario condimento di risate, liti, ubriacature, discussioni accese e solenni mangiate.
Dopo la cerimonia, noi parenti ce ne tornammo lentamente a casa di zio Guglielmo sotto una pioggia che da violenta si era fatta leggera e fine, ma insistente.
Umidi e infreddoliti, ci raccogliemmo attorno al tavolone dell’enorme cucina. Zia Nina, la moglie di Guglielmo, sembrava un passerotto spaventato. Zia Rosa, pragmatica come al solito, annunciò ad alta voce che avrebbe messo sul fuoco l’acqua per il thè e per la camomilla e un paio di caffettiere per il caffè. «Preparo anche le frittelle» annunciò con voce tonante.
Io mi risvegliai dal mio torpore inebetito e andai alla dispensa e mentre tiravo fuori bicchieri per tutti, zio Felice prese a stappare bottiglie di vino rosso. A casa nostra, da che avevo memoria, ogni accadimento, bello o brutto che fosse, era stato battezzato da robuste bevute.
Gli zii avevano gli occhi lucidi, i cugini più piccoli parlavano sottovoce e si muovevano quasi senza fare rumore e tutti, dal più vecchio al più giovane, ci sentivamo infinitamente smarriti.
Zia Nina teneva fra le dita un garofano rosso caduto da uno dei mazzi portati al cimitero. Ogni tanto alzava lo sguardo, lo faceva correre lungo le pareti della stanza e poi lo riportava a terra. Le leggevi lo sconcerto e la paura in viso perché si ritrovava di colpo senza la bussola che negli ultimi sessantacinque anni aveva guidato la sua esistenza.
Un po’ come tutti noi.
Zia Bruna iniziò la litania del “ma vi ricordate quando zio Guglielmo…?”, scatenando ricordi e lacrime. Mi guardai attorno e mi sentii chiudere la gola dalla commozione: eccola lì, la mia numerosa, chiassosa, caotica famiglia, croce e delizia della mia esistenza, rifugio e dannazione, consolazione e disperazione.
Forse, mi dissi, era il caso di intervenire prima che le lacrime allagassero la cucina e così alzai il volume della voce fino a sovrastare il chiacchiericcio piagnucoloso: «Ma vi ricordate l’oro alla patria?».
Attimo di silenzio.
«L’oro alla patria!» esclamò a gran voce zio Felice, dandosi una manata sul ginocchio destro.
«L’oro alla patria!» e prese a ridere, contagiando l’intera famiglia.
Già, l’oro alla patria.
Era il 18 dicembre del 1935 quando il regime fascista decise di istituire “La giornata della fede”: la causa bellica in Abissinia necessitava fondi e il duce chiedeva agli italiani di donare gli anelli nuziali alla patria.
L’eco della grande propaganda nazionale consentì al regime di raccogliere 37 tonnellate d’oro e 115 d’argento. Gli italiani avevano aderito con entusiasmo e alcuni con un po’ più entusiasmo degli altri, visto che qualche anno dopo, esattamente il 27 aprile del 1945, un paio di damigiane piene zeppe di quelle fedi furono sequestrate dai partigiani della 52esima Brigata Garibaldi “Luigi Clerici” ai gerarchi in fuga con Mussolini.
Ma questa è un’ altra storia.
Torniamo invece alla nostra storia. L’ effetto della propaganda di regime si fece sentire in pieno anche nel paesello di campagna dove i nonni vivevano: poco più di 1600 abitanti, la maggior parte dei quali forza lavoro nei campi, nelle stalle o nelle fornaci di laterizi che, all’epoca, lavoravano solo sei mesi all’anno. Nei rimanenti sei mesi, gli uomini che non erano impegnati nella manutenzione degli impianti, cercavano di portare a casa due soldi dalla campagna.
Insomma, a casa nostra non c’era affatto da scialare. In quel dicembre del 1935 il nonno Livio era l’unico a mantenere la famiglia che, oltre a sua moglie, nonna Maria, era formata da cinque figli di età variabile fra i 10 e i 2 anni, di un sesto figlio in arrivo e di tre genitori anziani a carico, i bisnonni Ettore, Berenice e Brunella.
Diciamolo: a casa dei nonni si tirava d’abitudine la cinghia e solo grazie all’orto, alle galline e alla Paziente, la mucca che da anni aiutava la nonna ad allattare i suoi numerosi figli, non si era ridotti alla fame.
Così privi di mezzi come erano, quando i nonni si erano sposati non avevano potuto comperarsi le fedi nuziali. Il nonno vi aveva rinunciato, mentre la nonna aveva ricevuto in dono dalla madre Brunella l’anello che era stato della trisavola Amelia.
Dopo i figli, il marito, i genitori e la Paziente, la fede della trisavola Amelia era la cosa a cui nonna Maria teneva più al mondo. «Nemmeno se viene il porco in persona a strappamela dalle dita!» aveva sentenziato quando il duce aveva annunciato la raccolta degli anelli nuziali.
E aveva nascosto la fede in un posto segreto conosciuto a lei sola.
Così, quando i compaesani erano stati chiamati alla cerimonia di donazione, lei e il nonno non si erano presentati. In paese c’era stato qualche mugugno, qualche cattiveria, ma era plausibile che quei due, ricchi solo di figli e di idee bolsceviche, non avessero avuto il denaro sufficiente per comperare due anelli.
La faccenda dell’oro alla patria sembrava dimenticata quando, qualche mese dopo, nella tarda primavera del 1936, un manipolo di camicie nere arrivò nel cortile dove si affacciava la casa dei nonni.
A capo del gruppetto di teste calde e veloci di mano, c’era il Tronconi: alto, grosso, amante delle carte e del vino, poco incline al lavoro, Tronconi non brillava per intelligenza, ma era un fascista della prima ora e, dopo anni di impegno, manganellate e olio di ricino distribuito con generosità, era arrivato a ricoprire l’incarico di segretario del fascio del paese.
Dai suoi concittadini era più temuto che rispettato e nemmeno il podestà, un farmacista che veniva da un’agiata famiglia di proprietari terrieri della zona, lo amava troppo, ma le mani veloci del Tronconi erano servite nei primi anni della salita al potere del regime e ora godevano della adeguata ricompensa.
Fra il Tronconi e la mia famiglia non correva buon sangue: in paese tutti sapevano che mio nonno e i suoi fratelli si professavano comunisti e pur non facendo attività politica, era normale, a casa nostra, che ogni tanto qualcuno venisse prelevato e portato in prigione per un paio di giorni.
Ci avevano fatto l’abitudine e quei soggiorni forzati, in famiglia, venivano allegramente chiamati “la villeggiatura”.
L’ultima “villeggiatura”, però, era stata anche la più drammatica. Il prozio Luigi, carrettiere, era stato pestato a sangue e lasciato mezzo morto in un fosso. Alcuni giorni prima del pestaggio, qualcuno aveva messo in giro la voce che Luigi avesse montato sul suo carro un grosso ombrellone parasole di uno sgargiante rosso, evidente segnale di propaganda bolscevica. In realtà il parasole era giallo, ma Tronconi aveva usato quella scusa per colpire e pure pesantemente la mia famiglia.
L’episodio violento aveva suscitato clamore, ma ovviamente nulla era stato fatto contro quel plateale abuso. Erano passati giusto sei mesi dal pestaggio dello zio ed ora il Tronconi aveva la sfacciataggine di presentarsi a casa nostra insieme a quattro dei suoi fedeli uomini, i corvi, come li chiamavamo noi, segretamente, in famiglia.
Tronconi e le sue camicie nere si disposero davanti all’uscio di casa e presero a chiamare a gran voce nonna Maria, che si affacciò sulla soglia seguita da un nugolo di mocciosi. Aveva cinque figli: il sesto era in arrivo e la settima, mia mamma, sarebbe arrivata solo dieci anni dopo.
Vestita con un modesto abitino di cotone a fiori blu e coperta da un grosso grembiule di tela grezza bianca, Maria si sentì montare il sangue alla testa alla vista di quei “delinquenti vestiti da beccamorti”.
«Che cosa volete? Mio marito non c’è, è alla fornace, insieme a tutti gli altri uomini. Qui ci sono solo donne, vecchi e bambini. Che cosa volete da noi?»
Il tono era bellicoso.
«Dai nostri registri – prese a cantilenare il Tronconi che quando parlava cercava di imitare la cadenza e le posture del suo duce – risulta che voi non avete donato le fedi nuziali alla Patria! Siamo venute a prendercele!»
«Non abbiamo donato fedi nuziali d’oro perché non le abbiamo mai avute e questo il podestà lo sa benissimo.»
«Se sei sicura di quello che dici, allora non avrai problemi a lasciarci entrare e cercare.»
Maria era paonazza per lo sforzo di non lasciarsi andare a insulti e invettive e, suo malgrado, dovette farsi da parte mentre Tronconi e i suoi corvi neri prendevano a frugare fra le misere cose della famiglia.
I piccoli erano atterriti, i bisnonni spaventati. Dalle case attorno, le vicine, tenendo per mano i loro bambini, si erano avvicinate e commentavano a bassa voce quanto stava accadendo.
Zio Guglielmo, che all’epoca aveva dieci anni e mezzo, scivolò non visto nella camera da letto dei bisnonni e da lì al cortile sul retro.
Intanto, i corvi, finivano di mettere a soqquadro la casa rimanendo, loro malgrado, a mani vuote.
Il Tronconi aveva lo sguardo torvo e si capiva che avrebbe dato chissà che cosa pur di trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che lo autorizzasse a colpire quella famiglia di rossi che si ostinava a non prendere la tessera del partito e a non iscrivere i figli agli inquadramenti di regime.
Tronconi fece scivolare lo sguardo lungo le pareti bianche di quella casa assai modesta, fino a quando non inciampò nella figura alta e sottile dello zio Guglielmo, che era appena rientrato di soppiatto.
«Ehi tu, ragazzo, vieni qui!»
«Lascia in pace mio figlio, Tronconi, è solo un bambino!»
«Zitta o te lo porto via per interrogarlo dove so io.»
Il bisnonno Ettore, indignato, fece per alzarsi in difesa del nipote appoggiandosi al suo bastone, ma i corvi gli si piazzarono ai lati e lo rimisero a sedere con violente pacche sulle spalle.
Tutto il cortile stava con il fiato sospeso: prendersela con una donna incinta, con un vecchio e un branco di ragazzini. Era vergognoso.
Tutti lo pensavano, ma solo Lita, la miglior amica di nonna Maria, ebbe il coraggio di sgusciare via e, non vista, di filare dritta in paese, alla ricerca del podestà. Il farmacista era sì fascista ma nemmeno lui avrebbe tollerato quella violenza contro una famiglia priva di difese.
Mentre Lita correva a rotta di collo verso il centro del paese, Tronconi cercava di far parlare zio Guglielmo, improvvisamente colto da un apparente mutismo.
«Avanti, ragazzo, dimostra di essere un vero patriota e dicci se hai mai visto tua madre o tuo padre o chiunque della tua famiglia nascondere dell’oro».
Zio Guglielmo non aprì bocca e, a occhi bassi, si limitò a scuotere la testa rasata in segno di diniego.
«Sei sicuro? Magari hai visto qualcuno nascondere qualcosa».
Zio Guglielmo ebbe un attimo di esitazione, poi accennò un timido “sì” sempre scuotendo la testa.
Alla piccola folla di spettatori scappò un “oh!” di stupore, a Tronconi un “ah!” di soddisfazione.
La nonna, raccontano, aveva il colore della cera.
«E che cosa hai visto nascondere? Un baule? Una cassa? Una botte?»
La fiducia di Tronconi sulle nascoste possibilità economiche della mia famiglia dovevano essere decisamente ottimistiche.
Zio Guglielmo faceva sempre di no con la testa. Annuì solo quando Tronconi pronunciò la parola “scatola”.
«Fammi vedere dove l’hanno messa!» gli ordinò secco l’uomo, alzando la voce.
Guglielmo, senza guardare in faccia la madre, abbassò lo sguardo e si avviò verso il cortile interno del caseggiato, quindi verso le stalle, seguito dai corvi, dalla famiglia e dall’intero vicinato.
Si fermò solo vicino alla tampa, la buca scavata a ridosso degli stabili degli animali, dove venivano raccolte le deiezioni dei maiali.
«Nella tampa?» chiese costernato Tronconi.
Zio Guglielmo fece di sì con la testa.
Tronconi ebbe un momento di esitazione, poi guardò mia nonna e le disse: «Entra lì dentro e cerca la scatola!».
«Con questa?» gli rispose prontamente la nonna battendosi le mani contro un ventre oramai giunto al termine della gestazione.
Le donne attorno mormoravano scontente e ormai fuori controllo: che indecenza! Prendersela con una donna incinta, con dei vecchi, con dei bambini!
«Zitte tutte!» urlò Tronconi, indeciso sul da farsi.
«In Abissinia conquistano l’Impero e tu qui, Tronconi, hai paura di un po’ di letame».
La frase della bisnonna Brunella scatenò un’ondata di risate, dapprima trattenute, poi sempre più liberatorie.
«Zitte tutte o vi sparo, dannate galline!» gridò Tronconi ristabilendo il silenzio.
Tronconi ebbe ancora un attimo di indecisione e si rivolese di nuovo a Guglielmo: «Ragazzo, sei sicuro di aver visto qualcuno buttare una scatola nella tampa?»
Zio Guglielmo annuì.
«Chi è stato?»
Questa volta Guglielmo abbassò la testa e non rispose.
«E va bene – mormorò Tronconi con lo sguardo di chi aveva appena preso una decisione cruciale per il bene del Paese – camerati: nella tampa a cercare la scatola dell’oro!».
I camerati, comprensibilmente, accolsero l’ordine con la giusta dose di ripugnanza, ma Tronconi fu irremovibile: credere, obbedire e combattere. E nuotare nei liquami, se a chiederlo era la Patria, perdio!
Nel corso degli anni che seguirono, la storia venne raccontata più e più volte: quattro camicie nere immerse nelle deiezioni dei maiali fino a mezza coscia che scandagliavano il fondo con le braccia infilate fin oltre ai gomiti. Uno spettacolo allo stesso disgustoso e imperdibile.
Dopo qualche minuto di caccia, i camerati avevano preso a tossicchiare, lamentandosi del terribile e nauseabondo tanfo. E fu proprio mentre Tronconi dava l’ennesimo ordine di non smettere di cercare, che alle sue spalle, insieme a Lita, comparve il podestà in persona.
«Tronconi, che cos’è questa pagliacciata?»
Colto alla sprovvista, Tronconi non seppe far altro che urlare «Camerati! Eia eia!» e sollevare il braccio destro in segno di saluto, seguito dai corvi che, senza esitare, risposero immediatamente con un virile «Alalà! Alalà! Alalà!».
Anche i corvi sollevarono il braccio destro, schizzando letame fino sulla camicia nera di Tronconi e sul camice immacolato del podestà.
Il podestà era paonazzo.
«Tronconi portate immediatamente via di qui i vostri uomini e fatevi trovare entro un’ora in municipio. Dobbiamo parlare».
Tronconi era pallidissimo: «Eccellenza, il bambino qui mi ha assicurato di aver visto qualcuno della famiglia gettare una enorme scatola piena d’oro nella tampa e ho pensato che fosse mio dovere di camerata e di italiano recuperare l’oro della Patria».
Il podestà chiese a zio Guglielmo se fosse vero e zio Guglielmo ritrovò la voce per dire che nella tampa c’era davvero una scatoletta, ma che non sapeva che cosa ci fosse dentro.
«Tutti fuori!» urlò il podestà alle camicie nere, oramai pesantemente sfumate di marrone.
Fu proprio durante l’eroica ritirata che uno dei corvi urtò qualcosa con un piede.
«La scatola! La scatola!» presero a gridare tutti e quattro.
Mentre gli uomini uscivano dalla letamaia, lo sguardo di Tronconi era raggiante. Quello di nonna Maria perplesso.
Ripulita alla bell’e meglio, la scatoletta si rivelò essere di legno, semplice, chiusa con uno scatto metallico.
Tronconi guardò la nonna con sfida e odio. La nonna sostenne lo sguardo con un impercettibile sorriso sulle labbra.
Infine Tronconi aprì la piccola scatola e davanti a decine di occhi estrasse una medaglietta di stagno dedicata a Santa Rita, due denti da latte di zio Guglielmo, un bottone (blu) e una piuma di gallina.
Tronconi, livido, guardò con odio zio Guglielmo e capì che quello stupido moccioso lo aveva preso per il naso; fece per aprire bocca, ma il podestà gli sibilò un feroce: «Via di qui!» a cui dovette obbedire.
Il podestà si rivolse a nonna Maria e, davanti a tutti, le fece le sue scuse per quello che definì “un increscioso incidente”.
Appena il quintetto si fu allontanato a sufficienza, una risata liberatoria si abbatté su tutti i presenti. Era una risata irrefrenabile, che sconquassava i toraci e alleggeriva i cuori, che riscattava di colpo tredici anni e mezzo di dolori e angherie e frustrazioni.
Rideva, nonna Maria, rideva così forte che all’improvviso le si ruppero le acque: «Ossignur – gridava la nonna – al nasa! Al nasa!». Nasce! Nasce!
Qualcuno portò una sedia su cui la nonna crollò di schianto, sempre ridendo, e la bisnonna Brunella fece appena in tempo ad inginocchiarsi davanti alla figlia che il piccolo sgusciò fuori e finì dritto fra le sue braccia.
Il primo vagito del neonato parve a tutti un piccolo singhiozzo allegro.
Nonna Maria seguitava a ridere e con lei le amiche e le vicine, i suoi bambini, sua suocera e i suoi genitori.
Venne pressoché naturale decidere di chiamare il nuovo arrivato Felice.
A sera, davanti al padre e agli uomini del cortile, Guglielmo raccontò che mentre i fascisti perquisivano la cucina, lui era scivolato in camera da letto, aveva raccolto quegli oggetti di nessun valore e li aveva messi in una vecchia scatola di legno che era corso a gettare nella letamaia.
«Cercavano qualcosa – commentò lo zio – e io qualcosa gli ho fatto trovare».
Nonno Livio, orgoglioso, gli offrì il suo primo bicchiere di vino rosso e zio Guglielmo prese la prima sbronza della sua lunga vita.
In casa temevano una ritorsione di Tronconi che, però, non arrivò mai in quanto il segretario del locale partito nazional-fascista perse la vita di lì a poco in un’eroica azione militare.
Di notte, si era introdotto in una stalla del paese per portare via un paio di vacche, ma non aveva calcolato la presenza del mulo che, spaventato dall’incursione, aveva preso a scalciare, colpendolo alla testa. Il corpo del Tronconi era stato trovato il mattino dopo, riverso fra gli escrementi del mulo.
Il partito non ritenne opportuno tributargli l’onore di una cerimonia funebre ufficiale.
Quando lo zio Felice finì di raccontare la storia dell’oro alla Patria, tutti quanti ridevamo alle lacrime. Anche la zia Nina.
Intanto aveva smesso di piovere e il grigio del cielo andava stemperandosi verso un pallido celeste.
Due compaesani passarono in bicicletta di fronte alle finestre di casa nostra e sentendo quelle fragorose risate si allontanarono scuotendo la testa: ridere così il giorno del funerale! Erano davvero tutti matti in quella famiglia. Bolscevichi e matti.
Se vi state chiedendo dove nonna Maria avesse nascosto la fede nuziale della trisavola Amelia, la stessa che porto al dito io, ora ve lo posso anche dire. Per dieci anni l’anello rimase nascosto fra le curve del generoso seno di Maria che lei, fino alla fine dei suoi giorni, aveva preso a chiamare “la mia cassaforte”.
©Viviana Gabrini, 2020 (tratto da Peccato che sia un vizio, Prospero Editore)