Ci sono giornate come questa, in cui la luce del sole esce improvvisa e spacca l’asfalto bagnato con un riflesso che è al tempo stesso pace e tempesta.
È una benedizione, non pare anche a te?
Pure se fa freddo, senti di far parte di qualcosa di più grande, che solo per un attimo si è scordato di noi, e che adesso è qui, di nuovo.
Si spengono i riflettori grigi della quotidianità e delle bugie stampate male. Non sai più distinguere il nero dal bianco, esiste solo il contorno, quello che sta dentro e quello che sta fuori, il pieno e il vuoto.
Mi avevi fatto promettere che ti avrei riportata qui.
Solo allora mi avresti raccontato la fine della storia.
E vedi, io continuo a tornarci, come se ogni volta questo parcheggio non aspettasse che noi.
Anche oggi, abbasso il finestrino e spengo la radio. Si sente sempre il rumore del fiume, oltre il canneto che cinge il marciapiede.
«Secondo te, alla fine lei si toglierà la vita? Potrebbe bere del veleno…» mi confidasti un giorno in cui il rosso di tutto il mondo aveva scelto i tuoi occhi per ritirarsi dal dolore degli altri.
«Madame Bovary» ti risposi e tu ridesti.
Come erano bianchi i tuoi denti e sporchi i tuoi capelli.
Sapevi di polvere a ogni abbraccio.
Le nocche, sbucciate. E il sangue rappreso ai lati delle unghie che non c’erano più.
Se Dio avesse le mani, dovrebbe averle come le tue di quel giorno, strette intorno al taccuino nero, scritto per intero, un’unica pagina rimasta bianca. Il tuo romanzo a cui cercavi un finale.
«Se non potrà essere se stessa, preferirà morire» e tornasti seria.
«Si sta bene, qui…» ti risposi.
«Promettimi che ci torneremo.»
«Ci sono tanti bei posti.»
«La fine della storia te la racconterò solo qui. Adesso metti Nutshell.»
Adesso metto Nutshell. E non è che cambi poi tanto dell’assenza. Solo la luce sembra flettersi in maniera diversa, e vibra come le corde di una chitarra che suona arpeggi al miele e alla pioggia.
Avevi un tatuaggio che correva lungo tutta la schiena. Era lo stelo di un fiore da cui nascevano petali e incertezze, filo nero a lambire la spina dorsale. Quando lo sfioravo col dito ne sentivo la protuberanza e la durezza. L’avevi messo addosso anche a lei, la tua protagonista.
«Però il suo è fatto meglio, da un tatuatore bravo.»
«Anche il tuo è bello.»
Così mi guardavi e mi compativi. Tu lo sapevi che le nostre verità non avrebbero mai combaciato. Eppure era necessario immaginare, in quest’angolo di parcheggio, una possibilità. Aggrapparsi a questa e stringerla forte. Con tutta la rabbia di chi non cambierà mai. Con tutta la rabbia del riff lento di Jerry Cantrell.
«Quando hanno suonato l’unplugged, Lane Staley stava già morendo. E lo sapeva.»
«Una volta che avrai scritto la fine, dovrai ricopiarlo al computer.»
«Si butterà sotto un treno.»
«Anna Karenina.»
«Eddai…» e ridesti di nuovo. Senza emettere suono. Fragile.
Quel giorno che invece piangesti, fuori pioveva e il parcheggio era pieno di auto vuote.
Avevi le labbra screpolate e la volontà sepolta sotto una frana di frasi fatte.
Ti passai un braccio intorno alle spalle e ti dissi che da ogni goccia sul parabrezza, se la guardi bene, può nascere una storia.
Provai a contenere quei sussulti che ti scuotevano. Provai a chiudere quei singhiozzi tra le mani.
«Pensa a quante storie potrebbero nascere dalle lacrime» mi dicesti, e poi un lamento simile a un soffio, come se per un attimo soltanto te ne fossi uscita da te per vederci da fuori e leggerci come tragedia.
Ci sono giornate come questa, in cui la luce esce improvvisa e inonda la pelle del sedile con un’indifferenza che non ricorda né il calore né la forma del corpo.
E questa è una maledizione, non pare anche a te?
Rimango in attesa che scenda la sera, che le candele dell’unplugged si spengano e che gli strumenti smettano di suonare. Stringo il taccuino che non ha più pagine bianche. Raccontano una storia che non ha una fine, ma l’esplosione di una stella.
Non scegliesti né Flaubert, né Tolstoj.
Virginia Woolf. Per te.
Mi avevi fatto promettere che ti avrei riportata qui.
Solo allora mi avresti raccontato la fine.
Continuo ad ascoltare il rumore del fiume in cui decidesti di moltiplicare per sempre l’epilogo di ogni romanzo, fondendo le gocce con le lacrime. Oltre il marciapiede, oltre il canneto. In una giornata senza vento e senza lettori. Entrasti a piedi nudi.
Così oggi cerco l’ennesimo finale. Voglio che questo mi racconti che la protagonista non si è uccisa. Che potrà essere se stessa. Che magari, da qualche parte, starà ancora combattendo questa battaglia, tutta da sola. E che magari un giorno ritroverà il suo amore che ha lasciato indietro.
Oggi voglio essere sicuro che mi regalerai una storia per ogni goccia del fiume, nei giorni a venire, ogni volta che tornerò qui, e che le tue mani sono diventate le mani di Dio.
Le stesse mani che nell’ultima pagina del taccuino hanno scritto una frase al posto di una fine. Una riga al centro del bianco, solo per me.
“Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi”.
Ci sono giornate come questa.
E ti chiedi se finiranno mai.