Un estraneo al mio fianco
Di quella mattina ricordo che indossavo una mantella rossa e sotto un vestito metà lana e metà stoffa. L’ho sempre odiato, non era nemmeno mio, me l’aveva passato un’amica di mia madre. Allora, però, non potevo scegliermi i vestiti, non perché mia madre fosse un cerbero, ma perché si usava così.
Quella mattina, quindi, indossavo l’odiato vestito (marrone la parte in stoffa sotto, a righe gialle e rosse la parte in maglia sopra) e la mantella rossa che, invece, mi piaceva moltissimo.
Era domenica, faceva freschetto e dovevo andare all’edicola a comperare il giornale a papà. Non c’era molta strada da fare, dovevo restare sullo stesso marciapiede fino ad arrivare all’edicola e tornare.
Comperare il giornale a papà la domenica era un compito di cui andavo molto fiera.
Quindi, quella mattina, io e la mia mantellina rossa – che se non fosse per quello che è successo dopo sembrerebbe fin troppo un richiamo freudiano a Cappuccetto Rosso – ci avviamo verso l’edicola.
Non parlare a nessuno, non fermarti. Insomma, non accettare caramelle dagli sconosciuti,questo significavano le raccomandazioni dei miei genitori. Ma io ero una bambina assennata, con la testa sulle spalle, un po’ sbadata a volte, ma “seria”. Non “avanti” come le bambine di oggi, ma giudiziosa.
Compero il giornale e ritorno verso casa, uno dei tanti palazzoni dei quartieri alveare di Milano, quelli costruiti nel dopoguerra che si spopolano di giorno perché la gente va a lavorare e si ripopolano la sera, ma le cui strade restano comunque vuote perché non sono strade da “passeggio”. Ci sono pochi negozi, nessun centro ricreativo, prati e nient’altro.
Così torniamo, io, la mia mantellina rossa e il giornale per il mio papà. Entro nell’atrio, mi dirigo all’ascensore che è fermo al nono piano, schiaccio il pulsante e aspetto. Dopo pochi secondi, sento la porta dell’atrio aprirsi e compare al mio fianco un signore. Di lui ricordo che era alto e portava i baffi. Mi sorride e mi saluta. Io, in automatico, saluto anche se non lo conosco.
Quando arriva l’ascensore – abitavo al quinto piano – il signore baffuto entra con me e in quel momento la mia vita ha come uno slittamento, scivola in qualcosa di nebuloso e sgradevole.
ll signore baffuto è vicino a me, ma non schiaccia nessun pulsante bensì mi chiede se posso aiutarlo a trovare le chiavi della sua macchina che ha appoggiato sulla plafoniera dell’ascensore. Me lo dice sorridendo. Non ricordo di aver provato paura, solo sbigottimento, non tanto per la richiesta assurda ma perché io gli stavo dando retta pur se dentro di me mi dicevo che era sbagliato: che senso aveva appoggiare le chiavi sulla plafoniera di un ascensore che stava talmente in alto da dover usare me per recuperarle?
Eppure sento la mia voce dire: «Va bene». Sento le sue braccia che mi stringono alle gambe e mi sollevano e mentre io tasto con le mani sopra la plafoniera trovando solo polvere, la sua mano s’infila sotto l’odiato vestito e le sue dita s’infilano dentro le mie mutandine e rovistano, allora non sarei riuscita a trovare altro verbo.
Non so quanto tempo sia durato il tutto, non molto. So che a un certo punto mi ha posata a terra, mi ha salutata ed è sparito.
La cosa che si è stampata per sempre nel mio cervello è stata la sensazione di stupidità. Ero ferma in mezzo all’ascensore e mi sentivo stupida, stupida, stupida. E sporca. E in colpa. E spaventata, come se al mio corpo fosse accaduta una cosa orribile, qualcosa che mi aveva resa diversa per sempre.
Dominante, le sensazioni di vergogna e stupidità. Con tutte le raccomandazioni che mi avevano fatto i miei, mi ero fatta abbindolare come una cretina da un tizio che mi aveva rifilato una storia assurda. Le chiavi sulla plafoniera. E io non ero riuscita a oppormi, a dirgli “No, vada via o chiamo i miei”.
Mi rivedo lì, immobile, dentro l’ascensore metre scoppio a piangere. E poi mi decido a schiacciare il tasto che mi porta al quinto piano, esco in lacrime sul pianerottolo, i miei si terrorizzano, cercano di capire cosa mi sia successo. Racconto in modo confuso e omertoso perché il senso di colpa mi sta schiacciando e mi impedisce di dire tutto. Ricordo mio padre che si fionda giù in strada e mia madre che mi sgrida, spaventata, dicendo che me l’hanno ripetuto mille volte di non dare retta agli sconosciuti, e io, muta, che vorrei morire, lì, in quell’istante. Perché, penso, se papà prende quell’uomo lo uccide e se lo uccide va in prigione e se va in prigione è colpa mia.
E voglio morire perché ho deluso i miei genitori e perché mi sento stupida e sporca.
Non dico ai miei che le mani di quell’uomo – che naturalmente papà non ha trovato – si sono fatte strada dentro di me. Non ce la posso fare. Dico che mi ha toccato un po’ il sedere e loro – spaventati ma senza voler terrorizarmi più di quanto già non sia – dicono qualcosa di rassicurante che ora non ricordo.
Quello che ricordo è che sono andata a lavarmi e l’ho fatto per non so quanto tempo.
Di questa storia non ne ho mai scritto, non ne ho mai parlato con nessuno, a parte con i miei (ma solo allora e in parte) e con mio marito.
Quell’episodio non ha sconvolto per sempre la mia vita, ma ha segnato di certo quegli anni.
Ricordo me, in classe, che guardo le mie compagne e mi sento di nuovo stupida. E sporca. Stupida e sporca. E penso che solo a me può essere accaduta una cosa del genere, che nemmeno ho capito bene cos’è ma è stata schifosa. Solo a me, perché sono stupida.
E poi giuro a me stessa che nessuno lo saprà mai.
E nessuno, fino adesso, lo ha mai saputo.
Avevo dieci anni.
Ora ne ho quarantotto ed è arrivato il momento di scriverla questa piccola (immensa per me) storia.
Perché poi ho scoperto che non è accaduto solo a me e che, anzi, sono stata fortunata perché poteva andare molto molto peggio.
Perché ho smesso di vergognarmene.
Perché scrivere, per me, è sempre stato come buttare a mare un masso pesante per viaggiare più leggeri.
Perché scrivere agli altri ti fa sentire meno sola.
Perché so che quella bambina non era stupida e l’ho perdonata. Anzi, è come se l’abbracciassi forte, qui, ora e le dicessi: “Stai tranquilla, ti voglio bene”.
Sì, le voglio bene.
© Barbara Garlaschelli