Amo la nebbia.
Una volta c’era, ora con il surriscaldamento delle città è quasi sparita.
Lo so, è pericolosa. Lo so, per chi guida è una iattura.
Ma io amo la nebbia (anche le lasagne, se è per quello. E per la linea sono altro che una iattura…).
Nella nebbia è come camminare nell’assenza.
Immaginare corpi e sentirne i passi che si allontanano, chissà dove.
E’ la direzione che manca.
La sorpresa dello smarrimento.
Mio padre mi raccontava che, a Milano, quando era giovane, la nebbia – che in milanese si chiama scighera – era così fitta da costringere la gente a ritrovare il portone di casa tastando i muri e facendo risalire la mano verso il numero civico.
Me la ricordo anch’io la nebbia, da ragazzina, a Milano, nel quartiere dove vivevo e che veniva definito “la fabbrica della nebbia”: il Gallaratese. I palazzi brutti e tutti uguali sparivano nel bianco e potevo immaginare di essere ovunque o da nessuna parte.
I rumori arrivavano da qualche parte – davanti a me? dietro? di fianco? – e dovevo fare attenzione ché qualche macchina non sbucasse all’improvviso.
Potevo immaginare tutto senza vedere niente.
Avrei potuto macinare chilometri e ritrovarmi nello stesso punto.
Non era una brutta sensazione. Tutt’altro. Era avvolgente e carica di fantasia.
Inventavo storie, nella nebbia, che morivano tagliate dalla lama di un sole pallido.
Potrei dirvi che per navigare a vista con la nebbia basta l’istinto, ma temo non sia così. E’ necessaria anche una buona dose di fortuna.
Mi manca un po’. La nebbia.
© Barbara Garlaschelli