Mustafà

Il fischio del treno arriva da lontano e taglia l’aria gelida di questo novembre che sembra non finire mai. Fa freddo, ma io non sento né le mani intirizzite né la punta del naso ghiacciata: la mia fame di avventura è più forte di tutto, anche delle urla di mamma che mi dice di rimanere al campo a badare ai miei fratelli più piccoli.
Il rumore delle sbarre che calano. Adesso so che fra dieci minuti esatti il treno entrerà sbuffando in stazione, col suo carico di uomini indaffarati e donne con le sporte della spesa. Sporte misere e povere, perché c’è la guerra e trovare di che mangiare è diventato faticoso.
Anche per noi, qui al campo, la vita si è fatta più complicata.
La gente perbene ci schifa, i ragazzini della mia età mi tirano i sassi e mi gridano “zingaro” e altre parole cattive, ma io non li ascolto e quando li incontro per la strada scappo, più veloce di loro.
Mi dicono “zingaro” in un modo che, non so spiegarlo bene, in un modo che fa sembrare questa parola la più brutta del mondo.
Ma io sono un nomade. E nomade è una parola bellissima.
Loro vedono solo la mia pelle scura, i miei vestiti pieni di rattoppi e sentono solo che il mio italiano ha un’eco diversa dalla loro parlata lenta e cantilenante.
Ma non sanno niente. Non sanno com’è vivere dentro grandi carrozze di legno trainate dai cavalli, non sanno quanto sia bello occuparsi di queste bestie magnifiche, accarezzare e spazzolare il loro pelo, strusciare la fronte contro i loro musi tiepidi che profumano di fieno. Non sanno che cosa significhi guardare il ferro e il rame che prendono vita nelle mani dei nostri padri e dei nostri nonni. Non sanno quanto sono belle le nostre mamme e le nostre sorelle, con le loro trecce scure che arrivano fino alla vita, gli abiti lunghi, gli scialli colorati, coi loro canti antichi che ti cullano ogni sera davanti al fuoco fino a che non ti addormenti.
Non sanno che cosa significhi essere liberi di partire e di spostarsi da una terra all’altra, senza padroni e senza costrizioni. Senza confini.
Di nuovo il fischio del treno. Le mie gambe si muovono da sole e inizio a correre verso i binari: mi piacciono i treni, così grandi, possenti, e da grande, se non lavorerò il ferro e il rame come mio padre e come mio nonno, guiderò uno di questi bestioni e invece di un carrozzone di legno ne avrò uno di ferro, lamiere e bulloni.
Mi fermo alla giusta distanza dai binari proprio nel momento in cui il treno sta passando. Chiudo gli occhi e stringo i pugni. E rido. È bellissimo sentire l’aria gelida che ti frusta la faccia e le ossa che tremano al passaggio di tonnellate e tonnellate di metallo lucente.
All’improvviso sento una mano sulla spalla: è mio padre, che mi guarda severo.
Ho paura che mi arrivi un rimprovero, invece mi dà un buffetto sulla guancia e mi chiede se voglio accompagnarlo in paese per alcune commissioni.
Mano nella mano attraversiamo i binari. Pochi passi e siamo sul viale che porta alla piazza grande del paese, quella con una fontanella dove l’acqua esce da una testa di drago.
Camminiamo a ridosso dei muri delle case che contornano il viale. Ogni tanto lancio uno sguardo verso mio padre: è alto e forte e accanto a lui non ho paura di nulla.
A un tratto, dalla nostra destra, delle grida.
Mi volto e, dall’altra parte della strada, vedo un gruppo di gagé che ci indicano, urlando.
Io lo so chi sono: sono quelli della Brigata Nera e mio padre mi dice sempre di stare alla larga dai briganti neri. Ci odiano, a noi nomadi.
Guardo mio padre, che mi stringe forte la mano: forse dovremmo tornare al campo.
Poi sentiamo di nuovo quelle grida. Uno di loro sta scommettendo con gli altri briganti e vuole dimostrare a tutti di avere una buona mira. Vuole provare le armi nuove, vuole verificare quanto siano efficaci.
Così estrae dal fodero la sua pistola e urla “bisognerebbe ammazzarli tutti!”.
Poi prende la mira, mi punta e fa fuoco.
E mi colpisce alla testa.

Io, Mustafà Abdalla, nato il 18 maggio 1934, muoio in una fredda domenica di novembre, per l’esattezza il 19 novembre 1944.
Muoio al numero 26 di viale Giulietti, in un piccolo paese dell’ Oltrepò che si chiama Casteggio.
Muoio con un colpo di pistola alla testa, per mano di un fascista della Brigata Nera.
Nessuno poserà mai una lapide sul luogo del mio assassinio.
A ricordarsi di me e della mia breve vita rimane la tomba al cimitero fatta posare dai miei genitori.
Il mio omicida rimarrà impunito fino alla fine della guerra, quando verrà giustiziato sulla pubblica piazza.
La sua famiglia rimarrà a vivere in paese, rispettata da tutti.
Nessuno ha mai chiesto scusa ai miei genitori.

©Viviana Gabrini, 2020

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