Mi chiamo Antonia, ho sedici anni, la mia vita sta andando a rotoli e odio il mare.
In quella tarda primavera del 1990 le disgrazie parevano abbattersi su di me a multipli di tre alla volta. I miei genitori stavano per separarsi, mio padre aveva ingravidato la segretaria neo maggiorenne, la casa dove avevo vissuto fino ad allora sarebbe stata venduta, non avrei adottato la coppia di gattini che desideravo da tempo, gli insegnati avevano deciso di farmi saltare un anno e di farmi passare dalla quinta ginnasio alla seconda liceo, quell’anno non avremmo fatto la solita vacanza in montagna e sarei stata spedita nelle Marche, al mare, a casa delle sorelle di mamma, in un tourbillon infinito di cugini e cugine e di amici e amiche di cugini e cugine perché, mi era stato detto, avevo bisogno di stare insieme a ragazzi della mia età.
Odiavo il mare. E odiavo i ragazzi della mia età.
Sia il mare che i ragazzi della mia età mi facevano una paura fottuta.
Quell’agosto, quando scesi alla stazione di San Benedetto, mi ritrovai in un carnaio di gente nervosa e sudata che arrancava verso le gioie balneari. Sballottata di qua e di là e incapace di districarmi da quel groviglio di corpi alieni, mi sentii strattonare per un braccio e poi sospingere verso l’uscita: era zio Gianni, il marito di zia Lisetta. Mi lasciai guidare fuori dalla stazione fin dentro all’auto, parcheggiata in doppia fila. Mentre l’auto ci portava verso casa, zio Gianni mi aggiornò sullo stato di salute del parentado e mi fece l’elenco delle persone che avrei trovato. Ci sarebbero state tre zie, due zii, cinque cugine, tre cugini, amici di cugini, dieci fra maschi e femmine. E quelli erano solo quelli che vivevano dentro casa.
“Alluluja” bisbigliai a mezza voce. Pensai che quell’ alleluja avrei anche potuto urlarlo a pieni polmoni, tanto lo zio non se ne sarebbe accorto, circondato com’era dalle sue parole e dalle note urlate dall’autoradio. Tutti così, da parte di mamma: comunicavano urlando e dove c’erano loro c’erano anche o un televisore o una radio accesa, possibilmente a tutto volume. Segretamente, la famiglia di mia madre doveva aver dichiarato guerra al silenzio nel mondo. Una guerra che stavano vincendo alla grande.
Mia madre era diversa. Parlava sempre con tono quieto e i rumori violenti la infastidivano. A casa nostra, tutto era quiete e pace. Alla TV guardavamo solo film e telegiornali, la musica era sempre a basso volume e fra di noi conversavamo con tono sommesso.
Noi? Noi, pensai con un dolore sordo alla bocca dello stomaco, non esisteva più. Era stato frantumato in mille particelle di vita che ora correvano all’impazzata verso chissà che cosa.
Respira, Antonia, mi dissi, respira come ti ha detto di fare il dottore quando questa paura ti morde lo stomaco.
Respirai a fondo e chiusi gli occhi. Quando li riaprii, eravamo arrivati.
Mi chiamo Antonia, ho sedici anni ed essere infelice mi viene benissimo.
La villa degli zii era un vecchio edificio liberty a tre piani a ridosso del mare, che solo la proverbiale cocciutaggine di famiglia aveva salvato dalla speculazione edilizia del turismo di massa. Le orde di vacanzieri avevano reso la cittadina meno vivibile di un tempo, ma nessuna delle sorelle di mia madre si sarebbe mai allontanata da quella casa vecchia e scricchiolante, dal suo terrazzo da cui vedevi il mare e dal suo giardino infestato di erbacce, attraverso il quale arrivavi alla spiaggia in due minuti appena.
Era stato solo per amore di mio padre che mia madre, venti anni prima, aveva rinunciato a vivere in quel posto, tornandoci ogni estate, almeno fino al mio incidente.
Di quel pomeriggio concitato non conservavo memoria se non l’indicibile paura che il mare mi incuteva. Mia madre mi aveva raccontato che avevo tre anni ed eravamo al mare con il solito stuolo di zie e cugini. Io sciacquettavo in acqua, infilata in una sorta di mutandina gonfiabile che mi permetteva di rimanere a galla, sorvegliata da mille occhi. Bastò un solo momento di distrazione di uno di quei mille occhi perché mi ritrovassi con le gambe per aria e il busto in acqua. Mia madre si accorse subito di quanto succedeva, mi rigirò e mi portò velocemente a riva, dove vomitai un cospicuo volume di acqua salmastra. Per precauzione, venni portata al pronto soccorso più vicino, ma i medici dissero che stavo benone, ero solo un po’ spaventata. Forse quei luminari avevano sottovalutato quel “po’”, se a distanza di tredici anni nutrivo ancora un sacro terrore per quella massa liquida rombante e minacciosa.
Da quella volta in poi, quindi, vacanze in montagna. A nulla erano serviti i tentativi di iscrivermi a vari corsi di nuoto, organizzati con i più diversi orientamenti pedagogici. Arrivata in prossimità dell’acqua mi irrigidivo, stringevo i denti, diventavo di marmo e iniziavo a sudare. Almeno fino a otto anni; dopo avevo registrato qualche miglioramento e ora riuscivo ad entrare in acqua fino alle ginocchia. Non oltre. In fondo il mare rimaneva un tipaccio poco raccomandabile e io una sopravvissuta al suo agguato. Insomma, anni e anni di fiera resistenza e ora mia madre e mio padre mi avevano confinata per un mese intero a meno di centro metri dal mio mortale nemico, attorniata da torme di adulti urlanti e adolescenti alieni e minacciosi. Se in quel momento avessero istituito le Olimpiadi dell’Infelicità, le avrei vinte di sicuro.
Mi chiamo Antonia, ho sedici anni e sono sempre fuori posto.
I primi giorni di vacanza furono un vero tormento. Allevata dai miei genitori come un’adulta in miniatura, ero abbastanza a mio agio con le persone grandi, ma stonata e fuori luogo con i coetanei.
Mi ero ricavata un’isola di salvataggio sul letto che occupavo in una camera del terzo piano e che avrei dovuto condividere con le cugine Lucrezia e Lodovica. In realtà ognuno dormiva dove gli pareva, fino a notte fonda i corridoio erano percorsi da invasati che zompettavano da una stanza all’altra, con corteo di risate e sghignazzi, mentre io cercavo di non mollare il letto a ridosso del finestrone da cui vedevo il mare. A distanza, nessuna paura e solo fascinazione.
Mia madre mi aveva proibito di portare con me più di tre libri ed io avevo faticato ad operare una scelta fra i volumi del cuore. In quell’esilio marino che ritenevo immeritato, avevo portato con me Le memorie di Adriano, un saggio femminista e una raccolta di poesie di Wislawa Szymborska.
“Devi divertirti insieme ai ragazzi della tua età – mi aveva raccomandato mia madre – lascia perdere i libri, mi sembra che quest’anno hai studiato fin troppo”. Il riferimento era agli esami che avevo sostenuto a giugno per passare dalla quinta ginnasio alla seconda liceo. Da anni i miei genitori si opponevano agli insegnanti che mi consigliavano qualche scuola speciale per ragazzi molto dotati. I miei rispondevano che preferivano che crescessi come una ragazza normale e avevano mediato accettando il salto di classe.
Io mi sentivo un guscio di noce in balìa delle onde decisionali altrui. Dopo sedici anni passati a sentirmi dire che dovevo comportarmi come un’adulta, ora mi si chiedeva di comportarmi come una ragazzina, ma senza fornirmi adeguate istruzioni in merito.
Tre piani di casa, un giardino e nessun posto in cui stare da sola senza incappare in qualche bipede, più o meno adulto, più o meno molesto. Sorridevo a tutti, ero gentile con tutti. Fingermi come loro era la mia missione. Ovviamente, non ero per niente credibile.
A parte mia cugina Lodovica, che aveva diciotto anni ed era molto paziente, gli altri bipedi adolescenti mi guardavano come si guarda una bestia rara. Adolescemi, li chiamavo fra me e me.
Li invidiavo dolorosamente. Erano tutti, maschi e femmine, altissimi, magrissimi, abbronzatissimi, bellissimi, con denti scintillanti e dritti, sorrisi sfrontati da giovani lupi, maniere spicce e sicure. Sembravano perfettamente a loro agio in ogni situazione, parlavano fra di loro usando i tormentoni delle pubblicità o delle trasmissioni televisive di successo e non erano per niente imbranati.
Adolescemi, sì, ma divini.
E poi c’ero io. Più bassa di almeno dieci centimetri, tondetta, la carnagione bianca e lentigginosa, capelli biondi sempre spettinati, occhiali e un apparecchio per i denti che mettevo solo di notte. E un imbarazzante paio di tette che erano il mio personale cruccio.
Qualche anno dopo, qualcuno mi avrebbe definito “bellezza rubensiana”, ma in quegli anni mi sentivo solo un’ingombrante mortadella coi piedi. Sapiente, per di più.
I primi tre giorni, scendevo al mare verso le dieci, mi spalmavo di crema, infilavo una camicia leggera sulle spalle e mi rifugiavo sotto l’ombrellone, cercando di nascondermi dietro un libro e gli occhiali da sole.
Poi, i divini incominciarono a chiedermi perché non entravo in mare e io dovetti spiegare che non sapevo nuotare e che avevo paura dell’acqua a causa di un incidente occorsomi da bambina. Cercarono allora di coinvolgermi in un torneo di pallavolo, ma giocare con gli occhiali era pericoloso e senza inutile, perché non vedevo a un palmo dal naso. Alla terza pallonata in piena faccia, venni esonerata dal torneo.
Ogni tanto mia madre mi telefonava all’ora di cena. Alla sua domanda “che cosa stai facendo?” avrei voluto rispondere “colleziono figure di merda”, ma ero una ragazza educata e mi limitavo ad elencarle i manicaretti di zia Lisetta e di zia Piera a cui facevo ampiamente onore.
A una settimana dal mio arrivo, ero sbruciacchiata in più punti, prendevo di nascosto i libri dalla biblioteca degli zii e non riuscivo a scambiare più di quattro parole con nessuno della numerosa compagnia di divini adolescemi che infestava la villa.
Mi chiamo Antonia, ho sedici anni, traduco benissimo Tucidide e amo le commedie americane degli anni cinquanta e sessanta.
La seconda settimana di mare vide tre sostanziali cambiamenti: presi l’abitudine di alzarmi all’alba e di andare a camminare sulla battigia, in perfetta solitudine. Con un maglioncino di cotone addosso, camminavo immersa fino alle ginocchia in un’acqua incredibilmente tiepida e accogliente, che non mi faceva paura.
Alla villa era arrivata una ragazza nuova, Eva, compagna di banco della cugina Lodovica e infine, nel mucchio di adolescemi maschi, mi ero accorta dell’esistenza di Andrea, il miglior amico di mio cugino Roberto.
Andrea era altissimo, moro, grandi occhi azzurri. Un misto fra Gregory Peck e Paul Newman. Assolutamente divino. Si era appena diplomato e ad ottobre avrebbe iniziato l’università. Se con gli altri ragazzi collezionavo figure da rimbambita, con lui non riuscivo a spiccicare parola. Ogni volta che mi salutava, arrossivo e farfugliavo penosamente. Andrea non faceva un passo senza essere attorniato da mucchi di divine adoranti alle quali elargiva sorrisi in egual misura, senza apparenti preferenze. Io, quando lo incrociavo nei corridoi della villa, cambiavo strada.
Fu lui ad attaccare bottone, prendendomi di sorpresa. Avevamo appena finito di pranzare e di aiutare le zie a sistemare la cucina. Con un giallo di Agatha Christie recuperato dalla biblioteca di famiglia, me ne stavo appollaiata sul dondolo sotto il bersò, quando Andrea si sedette accanto a me dicendomi: “Era considerato il regista delle donne, cinque lettere, inizia con C”.
“Cukor – risposi senza nemmeno pensarci – George Cukor”.
Lui scrisse Cukor nelle caselle delle parole crociate e mi sorrise: “Ma allora è vero che sei un’enciclopedia vivente”.
“Mi piacciono le vecchie commedie americane” risposi, quasi a dovermi giustificare.
Lui sorrise ancora e io pensai che così da vicino, coi calzoncini corti e La settimana enigmistica di zio Carluccio in mano, sembrava un po’ meno divino e un po’ più umano. In ogni caso, sempre bellissimo.
Mi chiese altre cose e in breve completammo lo schema.
“In che cosa altro sei brava oltre che in materia di commedie vecchie commedie americane?” mi chiese Andrea con aria canzonatoria.
Ero bravissima a tradurre Tucidide, ma, anche se ero totalmente digiuna di strategie seduttive, sentivo che ammetterlo non avrebbe contribuito a fare colpo su di lui. Annaspai col pensiero. Niente delle cose che mi venivano bene erano adatte a suscitare l’interesse di un diciannovenne bello come il sole e con un sorriso da giovane lupo.
Arrossii e lui, del tutto inaspettatamente, allungò una mano ad accarezzarmi una guancia. “Spero che stasera sarai alla festa del Naki Beach” mi disse per poi allontanarsi senza darmi il tempo di rispondergli.
Mi chiamo Antonia, ho sedici anni e sono molto confusa.
Sotto le mani sapienti di Eva, i miei capelli avevano preso una forma e una consistenza diverse e ora, raccolti sulla nuca, incorniciavano un viso leggermente truccato e meno insignificante del solito. Eva era la compagna di banco della cugina Lodovica e aveva diciotto anni. Pelle, capelli e occhi scuri, eredità di una madre spagnola, aveva una voce profonda e morbida che la rendeva incantevole. Arrivata alla villa da pochi giorni, mi aveva presa sotto la sua ala protettrice ed eravamo diventate quasi amiche. Era sempre gentile, non mi canzonava per i miei gusti in fatto di libri e film e anzi si dimostrava aperta e recettiva. Mi turbava almeno quasi quanto Andrea, ma non riuscivo a staccarmi da lei. Quel pomeriggio, quando le dissi che mi sarebbe piaciuto andare alla festa del Naki con tutta la compagnia, si offrì di aiutarmi nei preparativi.
Scartati i miei abiti giudicati troppo sportivi, optammo per una mise semplicissima: pantaloni di tela blu e un’ampia camicia bianca che, secondo lei, avrei dovuto portare sbottonata fino al seno. Mi aiutò a truccarmi e a pettinarmi, mi fece indossare bracciali e orecchini. Mi sentivo diversa. Mi sentivo bella.
Eva finì di sistemarmi un ricciolo sulla fronte, poi l’ultima cosa che vidi fu il suo viso che si avvicinava. Sentii le sue labbra sulle mie e mi parve di sciogliermi sul pavimento. Riaprii gli occhi e lei si era già allontanata: “Finisco di prepararmi – disse andando verso la sua stanza – ci vediamo giù”.
Ero stata baciata. Ero stata baciata per la prima volta in vita mia. Ero stata baciata da una donna. E mi era piaciuto. Ero frastornata, in bilico fra eccitazione e disperazione.
Il Naki Beach era un locale sulla spiaggia e quella sera era affollatissimo. Pochi minuti dopo averci messo piede, mi ritrovai con un mojito in mano, sballottata da orde di giovani lupi sorridenti affamati di vita. La musica mi trapanava il cervello e io pensai che forse non era stata una grande idea venire in quel posto. All’inizio mi ero mossa insieme a Eva, poi la folla ci aveva divise e ora stavo appoggiata a un divanetto in plastica, cercando facce note. L’abbraccio di Andrea mi colse alla sprovvista. Mentre bevevo in fretta e furia il mio mojito per farmi coraggio, lui mi pilotava in un posto un po’ più tranquillo e meno rumoroso. Ci ritrovammo abbracciati dietro le cabine, le bocche incollate e le mani che andavano ovunque. Le sue, non le mie. Fu quando Andrea riuscì a trascinarmi a terra e lo sentii sopra di me che mi spaventai e presi a divincolarmi. Lui si scostò immediatamente e fece per rialzarsi, ma io presi a colpirlo con pugni e schiaffi. Lo colpivo con violenza, urlandogli che doveva lasciarmi in pace. Andrea subiva e, palesemente, non capiva. Io, in realtà, stavo dando la stura a mesi e mesi di dolori ingoiati con il sorriso sulle labbra. Stavo prendendo a pugni mio padre e la segretaria neo maggiorenne gravida, i miei insegnanti che mi volevano studentessa perfetta, mia madre che mi voleva adulta o ragazzina a comando, i divini che mi facevano sentire un disastro e sedici anni di vita intera. Più alto e più forte di me, Andrea riuscì a liberarsi e a tirarmi in piedi insieme a lui. Io presi a correre e divorai i trecento metri che mi dividevano da casa. Gli zii e i loro amici stavano facendo un torneo di burraco in giardino e nessuno sembrò accorgersi di me. Mi rifugiai a letto dove piansi tutte le lacrime che non avevo versato negli ultimi mesi per poi crollare addormentata.
“Antonia svegliati, hai visite. Ci sono mamma e papà”.
La voce di zia Piera mi svegliò che erano le undici passate. Ero ancora vestita e il trucco mi era colato ovunque. Zia Piera non fece domande, ma si raccomandò che mi lavassi la faccia prima di scendere in cucina. Mi guardai allo specchio e mi vidi orribile. In pochi minuti riuscii a cambiarmi, a lavarmi faccia e denti e a raccogliere i capelli. Avevo gli occhi gonfi e la lingua impastata. Scesi in cucina dove trovai i miei genitori che bevevano caffè e mangiavano ciambelline. Accettai il caffè, rifiutai i dolci. Mia madre mi guardò perplessa: a memoria, non ricordava un mio no al cibo.
Erano venuti per portarmi a pranzo e parlare.
Li seguii, docile, e dopo una corsa sulla statale, ci trovammo in una vecchia trattoria che la mia famiglia frequentava da quasi trent’anni. Sedemmo a un tavolo e aspettammo che la cameriera prendesse l’ordinazione. Io, con la testa ancora ovattata, guardavo i miei genitori e mi sembrava di vederli per la prima volta. Le rughe attorno alla bocca di mia madre, le borse sotto agli occhi di mio padre, i loro primi capelli grigi.
Avevano facce tirate. Sembravano preoccupati. Per me.
“Come stai, Antonia? – iniziò mia madre – in queste settimane mi sei sembrata strana al telefono, le zie dicono che non ti sei ancora ambientata e pensiamo che forse non è stata una buona idea mandarti qui per un mese intero”.
Mio padre la interruppe e per qualche minuto parlarono contemporaneamente, coprendosi a vicenda. Mi dissero che avevano deciso di non vendere la casa: io e mia madre saremmo rimaste a vivere lì e mio padre si sarebbe cercato un appartamento in zona. A settembre avrei potuto adottare la coppia di gatti che chiedevo da anni e, se avessi voluto, sarei potuta tornare a casa quel giorno stesso.
“Se vuoi – aggiunse mio padre – possiamo farci questa ultima settimana di agosto da qualche parte in montagna”.
Più loro erano concitati e confusionari, più a me si snebbiava il cervello. Li guardai e sorrisi. Mia madre e mio padre. Niente più adulti infallibili e portatori di verità inoppugnabili. Solo due poveri cristi con le rughe, i capelli bianchi, un sacco di dubbi e altrettante paure. Non ero ancora pronta ad accettare la nuova famiglia di mio padre e forse non la sarei mai stata, ma iniziavo a provare qualcosa di molto simile alla compassione.
Sorrisi e li rassicurai: no, non volevo tornare a casa, volevo rimanere al mare con zii, cugini e divini. Ero felice di non dover abbandonare casa e avevo già i nomi per i gattini. I miei genitori parevano tanto sollevati quanto perplessi.
Ripartirono appena prima dell’ora di cena: li aspettavano cinque ore di viaggio, ma nessuno dei due poteva fermarsi per la notte.
Via loro, sapevo che cosa dovevo fare. Andai a cercare Andrea e lo trovai in giardino, insieme a una mezza dozzina di cugini. Trovare un posto dove parlare da soli era un’impresa in quella casa e così finimmo in cantina, fra bottiglie di vino, salami appesi a stagionare e cassette di frutta.
Scusa.
Lo dicemmo insieme e subito ci ritrovammo a parlarci addosso, a spiegare, a giustificare. Andrea aprì le braccia e io mi ci tuffai. Non era più un alieno inavvicinabile e non aveva niente di divino. Era un bravo ragazzo, con tutte le fragilità e le insicurezze dei suoi diciannove anni. Mi baciò la punta del naso e io sorrisi. A ottobre, mi disse, avrebbe iniziato l’università a Milano.
“Milano è vicina a Pavia, potremmo vederci”. Gli dissi di sì, anche se in quel momento ottobre mi sembrava un futuro troppo lontano e Pavia e Milano un altro pianeta.
Il mattino seguente mi svegliai all’alba e decisi di tornare a camminare lungo la battigia. Uscii che era ancora buio e quando arrivai in spiaggia la luce era solo un tremolìo a pelo dell’acqua. Sentii chiamare il mio nome e mi voltai: Eva mi aveva seguita.
Passeggiammo fino a quando l’aria e l’acqua cominciarono ad arrossare. Il sole era uno spicchio d’arancio che sbucava dall’orizzonte. Eva si tolse il maglione e mi prese per mano: “Andiamo”, disse semplicemente.
La seguii. Mi portò fino a dove l’acqua mi arrivava in vita. Si voltò e mi chiese di appoggiarle le mani sulle spalle, poi di lasciare che l’acqua sollevasse il resto del mio corpo.
Mi ritrovai a galleggiare appesa a lei. Era una sensazione insolita, ma gradevole e comunque sapevo che se solo avessi allungato un piede, avrei toccato il fondo sabbioso, che se solo avessi chiesto aiuto, lei ci sarebbe stata. Per un po’, Eva mi portò in giro come appesa alle sue spalle, poi si voltò, infilò le braccia sotto le mie ascelle e mi fece appoggiare la testa contro la sua spalla. Iniziammo a galleggiare insieme, mentre l’alba esplodeva inondandoci di colore. Rododaktulos eos, mormorai sorridendo. L’aurora dalle rosee dita. Anche noi eravamo rosa. E oro e porpora e arancio. Come il cielo e come il mare.
Sorrisi di nuovo, placata.
Mi chiamo Antonia, ho sedici anni e forse il mare potrebbe diventarmi amico.
©Viviana Gabrini, 2018 (dall’antologia Di mari e tempeste, Edizioni del Gattaccio)
©Foto Viviana Gabrini