Maremoti [14] di Maria Elena Poggi

© Illustrazione by Strips&Trips

E il tuo viso che mi manca non mi fa paura
Parigi (o cara)
Roberto Vecchioni

STELLE CHIUSE IN UNA MANO

Perdonami: ho dimenticato il tuo nome.
Il tempo scorre  e ogni giorno erode nuovi piccoli brandelli della vita che è stata.
La mia memoria, un tempo il mio miglior vanto, ora si sfalda adagio come pelle secca e disidratata.
Dove sei? In quale cassetto ti ho rinchiusa?
Il pensiero, molesto e implacabile, non si arrende e scava nella sabbia arida fino ad estrarre, di te, l’ovale di un volto, privo di lineamenti.
Forse avevi capelli chiari, pettinati in piccole onde ordinarie.
Anche la tua pelle doveva essere  chiara, circostanza che io reputavo incongrua dato che avevi la fortuna di vivere in una cittadina affacciata sul mare.
Far tappa a Moneglia fu una mia precisa rivendicazione nel programmare quel viaggio che, se pur desiderato anche da parte mia, continuava a sembrarmi assurdo.
Moneglia, prima fermata non negaziabile, era un risarcimento da esigere per i successivi dieci giorni allo stato brado, sparsi e solitari, in terra di Francia.
Mi guardi in sbieco, mentre sali le scale, con uno sguardo di cui oggi non ricordo il colore ma che stilla malinconia a ogni sbattere di ciglia. Sei alta quanto me e posso osservare, con un agio di cui farei francamente a meno, la maniera che hai di tenere le spalle curve e la testa un poco incassata, come a proteggere un pensiero fragile.
«Moneglia o morte!» fu dunque il mio motto, perché non si dica che non mi piace mantenere un basso profilo.
Fu Moneglia.
La stanchezza mi sega le gambe e le sinapsi: mi sembra di muovermi al rallentatore, come in uno di quei sogni dilatati  in cui le azioni non finiscono mai.
Il mio bambino, nella vitalità dei suoi cinque anni, scappa lungo le scale e ci lascia sole, indietro: due lente figuranti.
Lo segui con lo sguardo, il  capo reclinato da un lato e a me pare di cogliere una pausa di troppo, nel tuo respiro.
Moneglia fu quel che avevo sperato fosse: il crocevia magico dove lo stesso sentire, raccontato da uno freddo schemo di un computer, diventa carne, sangue, corpo e emozione. Giochi di bambini in riva al mare, quei bambini  le cui storie conosci da quando erano poco più che morule dalle belle speranze.
Ti appoggi alla balaustra, come a prendere fiato.
Poi parli: «Ecco, suo marito  può ricoverare  la bicicletta in quella stanza in fondo, per questa notte.»
Vorrei dirti grazie e puntualizzare che no, non è mio marito ma tu prendi respiro e coraggio e prosegui nel tuo discorso.
«E quindi siete diretti in Francia. A Parigi. Deve essere bella, Parigi. È il mio sogno, da sempre. Parigi.»
Ti fermi, mi guardi e io resto in silenzio. Il torpore è scomparso, sostituito da una sottile vibrazione interna. Adesso voglio sapere, voglio capire dove mi vuoi portare.
«Lei non può saperlo, ma anni fa avevo già le valigie pronte, pronte per partire. Mancava solo un giorno e poi sarei stata là, a Parigi.
La notte prima della partenza papà fu colpito da un’emorragia celebrale. Restò fra la vita e la morte per giorni. Ora, dell’uomo che fu è rimasto solo un corpo leggero: i suoi pensieri non ci sono più. Vegeta, senza riconoscere nessuno di noi.
Da quella notte è cambiato tutto. I sogni, le aspettative: l’amore…i figli.
Ma Parigi resta sempre là, in piedi.
E questo mi consola. Perché finché resiste lei, resisto anch’io.»
Mi regali un ultimo sorriso storto, capace di restarmi dentro più di quanto non saprà fare il tuo nome.
Mi volti le spalle di nuovo, salvifica. Come se fossi abituata a non ricevere  risposta alle tue esternazioni.
Noi,  alla fine, arrivammo a Parigi.
Me lo ricorda una piccola Tour Eiffel in metallo brunito che, ogni tanto, fa capolino dai più disparati angoli della nostra nuova casa.
Ogni volta che me la trovo sotto alle dita non posso fare a meno di pensare a te, mia sorella di rimpianto.
Resiste ancora Parigi, così a Nord dalle nostre inique quotidianità.
Non rammento le espressioni del tuo volto ma continuo a sperare che  tu abbia trovato la strada per arrivare da lei.
Sorrido mentre ti immagino guardare  la Torre da sotto in su,  le spalle diritte contro il vento e la testa rovesciata all’indietro.

© Maria Elena Poggi, 2018

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