Magali di Maria Elena Poggi

Lei si chiamava Magali, ma non lo sapeva.
Sorda dalla nascita, per nome aveva un fremito lieve nell’aria quando la sorella maggiore la prendeva fra le braccia per coccolarla o un mugghio di tramontana fra le labbra di sua madre, che di quella figlia difettosa avrebbe fatto a meno.
Ultima di sette figli di una famiglia di giostrai occitani, Magali era cresciuta selvaggia e ottusa, fra i campi e i villaggi che costellavano un itinerario punteggiato di fiere scalcinate e sagre paesane.
Aveva sette anni e non andava a scuola: la sua famiglia non si fermava mai troppo a lungo nello stesso posto.
E poi, per lo Stato lei non esisteva: nessuno si era preoccupato di denunciarne la nascita.
Minuta e muta, delicata come una farfalla, Magali aveva il dono di rendersi trasparente; questo le permetteva di allontanarsi indisturbata per dedicarsi alle sue passioni: l’osservazione dei fiori e delle forme delle nuvole. Crebbe, solitaria come un’erba spontanea.
Di quell’uomo, invece, non si conosceva né nome né origine. Lo si vedeva spesso sostare presso il muro di cinta di una villa in disarmo, poco distante dai binari della ferrovia; così il paese lo battezzò “il matto dei Raynard”.
L’uomo aveva fatto la sua prima comparsa in paese una decina di anni prima.
Si faceva notare per la sua figura imponente, sormontata da una criniera riccioluta e grigia ma quando emergeva all’improvviso dall’ombra era capace di essere silenzioso come un felino.
Una certa fierezza nel portamento pareva tradirne un’origine nobile ma era solo un’impressione, fugace come una voluta di fumo.

La gente del paese non lo temeva: con l’andar del tempo la sua presenza era diventato una consuetudine. Lo giudicavano innocuo, solo un po’ tocco, e presto divenne poco più di una cosa, buttata in un angolo e dimenticata.
Nei giorni di vento, però, il suo sguardo si faceva acquoso, spiacevole. Le iridi, di un azzurro slavato, si perdevano nelle cornee e conferivano ai suoi occhi una vacuità fissa, come di marmo, mentre la bocca biascicava una litania incomprensibile.
Allora, nell’incrociarlo per le strade, le donne si serravano i bambini più vicino e cambiavano marciapiede, evitando di guardarlo. Anche gli uomini, quando spirava il vento, affrettavano il passo e scrutavano i crocicchi nel timore di vederlo comparire.

Quel giorno, le roulotte e i camion delle giostre erano arrivati in paese poco prima di mezzogiorno e tutti si erano messi subito ad allestire lo spiazzo per la fiera.
La bambina aveva lasciato l’accampamento e si era allontana seguendo i binari, incurante delle nuvole scure. Non temeva la pioggia, soprattutto d’estate.
Eolo giocava con i suoi capelli e con l’orlo della sua gonna. La sospingeva sulla massicciata come una mano severa ma amorevole. Le bisbigliava all’orecchio parole inedite, coniate apposta per lei: una sinfonia di vibrazioni, di ronzii alti e bassi, di sensazioni che le penetravano nell’anima e la pervadevano tutta, come uno stato di trascendenza.

Il cielo mantenne la sua promessa scura e scaraventò a terra un inferno d’acqua.
Il matto, al riparo sotto la cinta della villa, la vide arrivare e subito non credette ai suoi occhi.
Pensò che quel giorno i demoni che lo abitavano fossero più cattivi del solito e gli proiettassero quell’immagine esile e vaga solo per infliggergli un ulteriore tormento.
Si stropicciò gli occhi, ma non servì a nulla.
La figuretta che avanzava sul rilevato ferroviario diventava ad ogni passi più grande, definita.
Sbatté due volte le palpebre, incredulo.
I suoi occhi erano vigili e attenti, ora.
L’ombra era viva.
Guardò i fari che avanzano bucando la cortina d’acqua e ne rimase ipnotizzato.
Poi corse.
Senza urlare.
Corse a perdifiato, incespicando nelle lunghezze della tunica resa pesante dalla pioggia.
Corse, senza speranza. Senza pensare all’urto, alla carni dilaniate dall’acciaio, all’attrito stridulo dei freni del convoglio.
L’uomo, combattendo contro i polmoni riarsi, arrivò ad afferrare un brandello di tessuto, tirando verso di sé un peso di carne e di sangue, rovinandogli addosso. Il suo corpo anziano si fece scudo, il volto finì calcato nel terreno, a inalare acqua e fango.
Lo sferragliare del treno si attenuò e scomparve. Al suo posto, un lamento basso e prolungato gli rimescolò le viscere. Si sollevò a fatica, tremando per lo sforzo e per l’adrenalina che gli vorticava nelle vene.

La figuretta era una bambina, minuta come una bambola. Con una mano tremante, le scostò i capelli dal viso e vide due occhi immensi, verdi come laghi, divorati dal terrore.
Sotto la pioggia implacabile, l’uomo ascoltò ancora una volta quell’istinto primordiale che l’aveva indotto a correre e la cinse in un abbraccio.
Il lamento cessò, lento.§

Il matto morì al crepuscolo, un giorno di settembre. Due contadini, che tornavano dai campi, lo ritrovarono riverso lungo il muro di cinta della villa.
Il parroco si fece carico di celebrare una messa funebre per quei poveri resti.
Un paesano di buon cuore gli donò un suo vecchio abito smesso, per renderlo presentabile nel suo ultimo viaggio.
Quando le donne lo spogliarono della sua tunica nessuna si accorse della piccola tasca cucita all’altezza del cuore e dell’istantanea sbiadita che custodiva.
La gettarono nel fuoco, insieme a quei quattro stracci che erano stati l’unico patrimonio di quell’uomo bizzarro.
Fu così che della breve vita di Aurora Reynard, morta in culla a trentatré giorni, si perse anche l’ultima traccia.

Letto da Barbara Garlaschelli

©Maria Elena Poggi, 2019

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