L’Uomo Tigre

Marta preparava amorevolmente l’attrezzatura sportiva del marito, che poi era anche la tenuta da lavoro di Ignazio. I pantaloncini con conchiglia di metallo inserita nella patta erano verde smeraldo, splendidamente decorati con applicazioni dorate a forma di foglie lunghe e sottili in cerchio, erano stati appena rimessi in forma dall’armaiolo e ritirati dalla tintoria, giusto in tempo. Erano i preferiti dell’uomo.
Tutto era ordinato e profumato di pulito nel delizioso appartamento accudito e impreziosito dalle abili mani della minuta mogliettina, casalinga a tempo pieno e impegnata in diverse attività volte al
sociale.
«Amore, hai avuto tempo di lucidare gli anelli?» chiese Ignazio, girando a vuoto per la stanza da letto.
«Sono già pronti, vicino ai gemelli e al crocifisso a maglia grossa.
Cosa faresti senza di me, disordinatone?» lo rimproverò con tenerezza lei, pizzicandogli dolcemente la guancia paffutella.
Adorava quel facciotto rotondo, con gli occhietti vicini, le sopracciglia folte che passavano da una tempia all’altra senza mai dividersi e l’attaccatura dei capelli che tracimava sulla fronte brevissima.
Sembrava pensieroso quella mattina, cercava di ripassare mosse e atteggiamenti facciali, era il suo lavoro. Agitava le braccia in aria, si girava su un fianco guardandosi le spalle, il collo era ancora sciolto
nonostante i suoi quarantacinque anni e le gambe erano agili e vivaci sotto la pancetta incipiente, hop hop, guarda che colpetto niente male, pensava rimirandosi in pose leziose davanti allo specchio
grande. Lei era graziosamente affaccendata, le gote rosse inumidite dal sudore, si sventolava con uno strofinaccio da cucina mentre sistemava sul letto le attrezzature del marito sbirciando con orgoglio
le sue pose da attore, braccia piegate davanti al petto in posizione di difesa, poi un dritto e un sorriso sornione con quegli occhietti da drago di Komodo che l’avevano fatta innamorare.
«Tesoro ti avevo preparato gli scarponcini a punta uncinata verde, ho passato almeno mezz’ora a lucidarle, mi spieghi cosa stai cercando nella scarpiera?» (lei lo sapeva) «Guarda Gnigni, lo sai cosa
penso di quelle cose, quelle zozzerie da mercato, non dirmi che…» ma Ignazio aveva già tirato fuori una scatola dal ripostiglio e la stava sistemando ai piedi del letto con aria colpevole e imbarazzata.
«Uccia ti prego, non essere così severa con me, lo sai che poi mi viene il magone e lavoro male.»
Il marito tirò fuori dei vecchi e sformatissimi scarpini con l’effige ormai quasi irriconoscibile de L’Uomo Tigre.
«Ma ti sembra serio andare al lavoro con quei cosi orrendi ai piedi? Cosa diranno i colleghi? Penseranno certamente che tua moglie non è in grado di accudirti come si deve!» si lamentò la donna con un
tono decisamente alto e quasi prossima alle lacrime.
«Uccia non fare così, lo sai che sono “vintage” e poi mi portano fortuna, lavoro meglio, mi concentro di più quando mi sento… mi sento potente!» rispose lui accentuando la parola “potente” con una
sorta di posa da gladiatore, esortando l’uscita dei bicipiti ostinatamente nascosti sotto due strati di pelle flaccida.
Lei non riusciva davvero a inquietarsi con quel marito simpatico, a volte buffo ma solo per farla ridere, partito dal gradino più basso della militanza politica per poi arrivare a una posizione di grande
prestigio, dal volantinaggio al Parlamento.
«Almeno mi puoi accontentare sul paradenti? Prendi quelli seghettati d’avorio, lo so che li senti scomodi perché sono nuovi ma quelli vecchi non li ho ancora portati a rifilare e non tagliano un gran che. Se avessi più tempo per occuparmi delle tue attrezzature non dovrei correre per la città come un’ape impazzita per farti risistemare tutto, pezzo per pezzo.»
Lui era innamorato come il primo giorno di quella piccola valchiria tumultuosa, minuta di statura ma gigante nell’anima, con quelle braccine tornite impreziosite di tatuaggi, come fossero state
immerse in una vasca di colori da un illustre poeta della tela, quelle figure geometriche, quei delicati uncini ricurvi che si rincorrevano in circolo come una giostrina di cavalli.
«L’ultima volta mi sono morso la lingua, accidenti» disse distrattamente Ignazio ma accorgendosi del labbro prossimo al tremore di lei si corresse immediatamente «ma è ovvio che indosserò il paradenti nuovo, per te Uccia mia, tesoro caro.»
I due innamorati si abbracciarono teneramente e dopo essersi accertata di aver sistemato tutto il necessario per Ignazio, lei uscì di casa con una certa concitazione, diretta verso un corteo dove i
compagni l’aspettavano per riempire le bottiglie con il concime, operazione che Marta sapeva effettuare con delicatezza e maestria.
Poi sarebbe andata a distribuire pacchi di pasta e dépliant alle famiglie più povere e incazzate del quartiere e subito in centro a ritirare il teaser da borsetta dall’arrotino ombrellaio cucine a gasse.
Ignazio arrivò a Palazzo Montecitorio con il consueto anticipo, perfettamente in ordine, col suo completino blu pulito, profumato e civettuolo, perché la sua Uccia lo faceva uscir di casa sempre come
un perfetto cicisbeo. Salutò gli addetti alla sicurezza coi quali scambiò saluti cortesi e chiacchiere allegre, era una giornata meravigliosa e lui era in gran forma.
«Come va ministro? È oggi che si discute della riforma sul dittatoriato?»
«Sì caro, oggi si mettono a punto le ultime quisquiglie e direi che siamo a posto. Prima ci sarà il mio intervento, direi verso le dieci e poi si procede con la chiama.» rispose Ignazio sfoggiando un sorriso
brillante e irradiante, avendo deciso di indossare subito il paradenti d’avorio, per cominciare a abituarsi allo scomodo presidio al quale Marta teneva moltissimo.
L’addetto alla sicurezza fece scorrere il borsone contenente le attrezzature da lavoro di Ignazio su un nastro simile a quello degli aeroporti, intanto parlottava con lui, come ogni mattina.
«Ottimo, ministro! Allora ci vediamo dopo, se le serve una mano per andare in infermeria mi faccia uno squillo, io resto in servizio fino alle sette oggi.»
Ignazio giunse in emiciclo con i soliti dieci minuti d’anticipo, perché arrivare in ritardo era una cosa volgare e lui teneva moltissimo a presentarsi al meglio.
«Lezzi buongiorno, come stai? Ho saputo che la settimana scorsa ti sei fatto male alla lingua, scusa se non ti ho chiamato in questi giorni, ma sai» (mano sulla pancia) «l’ulcera ha ricominciato a farsi sentire e ho letteralmente girato a vuoto per cinque giorni alla ricerca di un medico che mi azzeccasse la cura, guarda, un calvario.»
Ignazio sfoderò un sincero, cortese sorriso e ricambiò la pacca sulla spalla che il collega gli aveva dato, informandosi sulla sua salute.
«Ciao Donnola, io sto bene. La ferita, a Dio piacendo, sembra in via di guarigione, guarda che taglio» rispose Ignazio srotolando la lingua verso l’interlocutore per mostrargli un vistoso graffio, proprio sulla
punta.
«Accidenti Lezzi, mi dispiace, ma guarda! Te lo dico io, questo lavoro è logorante, ti uccide! Siamo nelle mani di Dio.»
«E lo so amico mio, piuttosto, dimmi di quest’ulcera, non avrai ripreso a mangiare in quella tavola calda etnica, in pausa pranzo? No! Dai! Ma quante volte te l’avrò detto, sei veramente un caprone
quando ti ci metti. Lo sapevo!»
«Ma ti giuro, non ci casco più, stavolta seguirò i tuoi consigli, guarda, davvero. Mai più. Quando c’è la salute c’è tutto.» rispose il collega con un sorriso spontaneo e divertito.
“I ministri Lezzi e Donnola si preparino per l’intervento di inizio seduta”, la voce del Presidente della Camera risuonò imperiosa dagli altoparlanti e i due colleghi si separarono per prepararsi al
confronto.
Quattro arbitri si posizionarono agli angoli del tatami e alcuni addetti delle Pompe Funebri “L’eterna Fiamma” presero posto in una zona periferica dell’emiciclo mentre gli onorevoli che
incrociavano i loro sguardi si grattavano sobriamente le palle.
Lezzi e Donnola raggiunsero il tatami posto al centro del Parlamento in tenuta da discussione: pantaloncini attillati con rinforzo metallico sulla patta, anelli tirapugni, scarpe a punta uncinata (Lezzi ostentava quelle con L’Uomo Tigre) e naturalmente i paradenti seghettati.
Si udì il suono dolce del campanellino e il presidente della Camera diede inizio alla discussione.
Lezzi spiccò un salto da perfetto Uomo Tigre su Donnola e con precisione chirurgica gli azzannò la giugulare.
©Ale Ortica

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