Sembra di stare in un film di Stelling. Lo Scambista: lo ha visto?
Il tizio alla mia destra mi guarda e accenna un no con la testa.
Non importa, aggiungo io, è una palla tremenda. Ma è un film curioso.
Sbuffo e dalla bocca mi esce un fumetto gelato.
Sono le 7 di sera del 24 dicembre e davvero mi sembra di vivere in una scena del film: buio, una pioggia leggera ma continua che cade sul mio zaino e sul cappuccio rialzato, foschia, un lampione che getta una luce giallognola e poco convinta su cumuli di neve sporca.
La stazione del mio paese è deserta; il ferroviere che la presiede è subito rientrato al caldo dopo averci detto di spostarci sul secondo binario ed io mi ritrovo a condividere l’unico metro quadrato di terreno ripulito da neve a fianco di uno sconosciuto in attesa del treno che mi porterà a Piacenza.
Il treno arriva ed io e lo sconosciuto saliamo; lui si accomoda e io, che sono senza biglietto, cerco il controllore per farmene rilasciare uno.
Poche carrozze e non più di cinque o sei viaggiatori.
Facce stanche, facce cupe, facce da vigilia di Natale su vagoni surriscaldati di una secondaria tratta di periferia.
Del controllore non c’è traccia; torno indietro, ripercorro tutto il treno fino alla fine e ancora nulla.
Rassegnata, decido di sospendere la ricerca e occupo tutti e quattro i sedili a fianco dello sconosciuto.
Libero la testa dal cappuccio, le spalle dallo zaino, poi via borsa e giaccone; intanto guardo il mio compagno di viaggio e gli dedico qualche secondo di attenzione.
Alto, occhi e capelli scuri, pizzo, occhiali. Faccia pulita e aria rassicurante.
E carino, anche, a voler sottilizzare.
Il tizio mi osserva di rimando mentre sparpaglio oggetti e indumenti sui sedili: sta fra l’incuriosito e il divertito.
Sembra quasi stupito di aver individuato una donna sotto il cappuccio e la giacca imbottita.
Non che sotto la giacca stia al mio meglio, intendiamoci.
Golf pesante, gonna lunga fino ai piedi, scarponi da pioggia.
Come dire: non sono al mio massimo dello charme.
Ma devo andar per treni, mica a rimorchiare, no?
Dalla borsa estraggo un libro che ho iniziato da poco, lo apro, recupero il punto giusto di lettura e ci immergo il naso.
Per non più di tre secondi, perché subito lo sconosciuto mi chiede se l’autore è portoghese e attacca a parlare di libri.
E dai libri passiamo ai film e dai film alle mostre e dalle mostre ai viaggi.
E scopriamo di avere su per giù la stessa età e di vivere a non più di 30 chilometri l’uno dall’altra e un sacco di altre cose che mi fanno sorridere e mi fanno pensare al gioco delle coincidenze.
E sembra che ci si conosca da una vita, anzi, no, a dirla tutta sembra che lui mi conosca da una vita e mi dice cose di me spesso precise e quasi millimetriche ed io non so se sorridere o preoccuparmi.
Scelgo di sorridere perché ogni volta che io sorrido il mio compagno di viaggio mi sorride di rimando ed ha un sorriso bello e dolce.
Sei un libro aperto, mi dice.
Vuoi dire che sono molto prevedibile? faccio io, dubbiosa.
Tutt’altro, risponde lui.
Paraculo.
Poi succede che a me arriva un messaggio e che lui deve telefonare e dalle giacche tiriamo fuori lo stesso sfigofonino: stesso modello, stesso colore. Stessa suoneria.
La Carmen è anche la sua opera preferita.
Ecco. Appunto.
Lui finisce di telefonare, io finisco di rispondere al messaggio.
Direi che possiamo anche scambiarci il numero di telefono, no?
E lo dice con aria così risoluta e convinta che mica riesco a dirgli di no.
A dire il vero, prima di dargli il numero, faccio due cose.
La prima è reprimere la domanda che mi è affiorata alle labbra (perché vuoi il mio numero?), la seconda è avvampare.
Patetico: 30 anni suonati e ancora arrossisco come un’adolescema.
Davvero imbarazzante.
Il treno arriva alla stazione di Piacenza e lui decide di accompagnarmi alla biglietteria: pago la tratta fino a Bologna, poi armeggio con la borsa per riporre il portafoglio.
Mentre io litigo con l’ambaradàn di oggetti che mi porto appresso, lui mi sfila il biglietto dalle labbra (da qualche parte dovevo pur appoggiarlo), lo oblitera per me e me lo riconsegna non appena vede che ho le mani di nuovo libere.
Che bello, mi scappa da dire, ho anche un badante.
Lui ride ed io penso che devo sembrargli proprio scema, se si sente in dovere di farmi compagnia fino all’arrivo del treno.
Però mi viene da pensare anche che è proprio bello quando ride.
Gli si illuminano gli occhi, penso.
Sono proprio scema, penso.
Smetto di pensare, forse è meglio.
Fuori fa freddo, dice in modalità accudente-on, ti conviene aspettare qui al caldo fino a quando non annunciano il tuo treno.
Son perplessa.
Che sia un volontario di qualche associazione assistenza viaggiatori rimbambiti?
Magari vanno in giro la notte di Natale ad aiutare le stordite perse lungo le linee ferroviarie nazionali.
Se fuori i tuoi amici ti aspettano, osservo io, ti conviene andare.
Annuisce e ci salutiamo con una stretta di mano.
Mi dice non so quante volte che gli ha fatto piacere incontrarmi e conoscermi eccetera eccetera.
Io penso che potrebbe anche darmi un bacio e che mica mi tirerei indietro e che in fondo non c’è nulla di male, è Natale, facciamoci gli auguri e baciamoci sotto il vischio, no?
Ah, dici che non c’è vischio?
Ecco, lo sapevo.
Non c’è mai un vischio a portata di labbra, quando serve.
Il saluto si prolunga e si moltiplica quasi; io sono rossa rossa, lo sento, e a lui brillano gli occhi.
E non è congiuntivite.
Allora ciao, dice.
Allora ciao, dico.
Lo guardo allontanarsi.
Lo vedo avvicinarsi a un’auto che lo aspetta sul piazzale.
Faccio qualche passo. Per vedere meglio? Per vedere meglio, lo confesso. Perché sono curiosa. Perché temo di veder scendere dall’auto una bionda mozzafiato.
Invece dall’auto vedo scendere un uomo, un uomo giovane, con barba e baffi.
Si abbracciano e si baciano.
Un bacio lungo e appassionato. Un bacio da innamorati.
©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)