Lo scherzo

Non pensavo a lei da tanto tempo, se escludiamo quella breve parentesi avvenuta circa sei mesi fa. Per essere sincera dovremmo escludere diverse brevi parentesi, tutte legate a qualche post su Facebook, argomenti che mi irritavano, atteggiamenti lamentosi imbevuti di stoico eroismo, tipo io sono forte e posso sopportare tutto il male del mondo e mi piace farvelo notare.
Quell’atteggiamento velatamente aggressivo e punitivo nei confronti del generico nemico, quello che la giudicava per motivi imperscrutabili, ma lei era superiore, talmente tanto che sentiva l’esigenza di comunicarlo al mondo, vedete come cazzo sono superiore? Si nota? E sotto quei post una caterva di risposte, adeguatamente indignate, di amici che non potevano esimersi dall’appoggiare le sue dichiarazioni di guerra, amica mia come hai ragione, ma tu sei forte, fregatene della gente, ce ne fossero di donne come te. Non leggi mai “ce ne fossero di mezze stagioni!”, no, le donne lamentose e in cerca di complimenti devono esserci, di quelle non ne abbiamo mai abbastanza.
C’è stato un tempo in cui eravamo vicine, io ridevo con lei e lei con me, colleghe, chiacchieravamo tutti i giorni e avevamo ragione entrambe su ogni argomento, ci saremmo difese a vicenda, spalleggiate sempre. Quando non eravamo d’accordo sapevamo di dover evitare certi argomenti, andavamo oltre, eravamo indulgenti, non ci interessava aver ragione in una discussione che ci avrebbe solo messe di cattivo umore. Tornavo a casa, ne discutevo con mio marito, con delicatezza, pesando le parole, sussurrando le accuse come se ciò le rendesse più lievi e confessavo di ritenere quella tale
posizione non degna di lei. Alessia faceva lo stesso, non avevo dubbi, ma io avevo ragione.

L’unico argomento davvero divisivo e potenzialmente catastrofico per la nostra amicizia era quello che riguardava il peso. Avevamo attraversato alcune strade comuni ma io non glielo avevo mai
raccontato. Il metabolismo che cambia, qualcosa si rompe e all’improvviso, da un giorno all’altro, non sei più una ragazza che può ragionevolmente ritenere una buona idea indossare un top e ciò
accade una sera come tante, mentre sei con gli amici e proprio il tuo stupido ragazzo dell’epoca ti tocca la pancia e parla di “rotolini”.
Eva, perfettamente consapevole di essere nuda, si guarda distrattamente le cosce e scopre di avere la cellulite, da quel momento fugge dal paradiso terrestre, imbocca il raccordo, esce a Roma nord e cerca disperatamente un outlet per potersi coprire.
Quando mi resi conto di non essere più ciò che ero stata per vent’anni caddi in una rapida depressione, approvata e rafforzata dallo zelo di una madre che metteva a tavola cibo da ingrasso, rimproverandomi di non “alzarmi mai da tavola con un po’ di fame”. Dio dell’assurdo, abbi pietà di lei.
Poi raggiunsi un peso abbastanza indecente da indurmi a provare qualche inutile dieta, un paio di regimi assolutamente dannosi, patetici digiuni e finalmente una ragionevole visita da un medico: dalle fasi di negazione a quella della guarigione, tutto come da programma.
Alessia non era mai stata normopeso, non conosceva altra condizione all’infuori dell’obesità e nell’era dei social era quella che postava cartoline motivazionali o aggressive sul tema: io sono bella
così come sono, tu (ma chi?) mi giudichi perché sei ignorante, io mi stra-piaccio così e non voglio cambiare (vorrei crederci!), il mio uomo dice che le ossa non le vuole perché non è un cane
(interessante paragone). Ogni volta provocava decine e decine di commenti che sottoscrivevano la sua stessa rabbia, la legittimavano, la appoggiavano come se fosse una dea della fertilità da portare in
ostensione. Nessun buon amico che arginasse quel delirio e le dicesse, Ale sei bellissima, non hai bisogno di autoconvincerti di questo, nessuno ti giudica, è la tua ansia che parla. Una sola volta sono scivolata in argomento, quando ancora eravamo vicine, non mi riferivo a lei, probabilmente stavo solo ragionando sul mio stile di vita volto a non tornare mai più in sovrappeso: Ale si irrigidì e mi rispose in tono risentito che lei era perfettamente in grado di fare una vita attiva, la sua giornata era tutta una corsa e io non capivo
cosa c’entrasse quel discorso con i miei lardi. Ognuno di noi ha delle debolezze che ci rendono impossibile guardare le cose senza passare dal filtro di quel dolore. Qualunque argomento toccasse la
questione peso diventava un fatto personale, sottintendeva l’idea che Ale fosse grassa, anche quando quella grassa ero io. Questo singolo episodio mi spinse a non abbassare mai più la guardia con
lei, evitare sempre, non parlare mai di chili e massa corporea.
Divenne un lavoro. Fummo brave e quando ebbi un figlio, Ale mi fece dei regali deliziosi. Li misi da parte, mai usati, temevo di sciuparli, ci tenevo tantissimo e quando lei prese un cane che trattava come un bambino, ricambiai con qualche assurdo accessorio da canari e, cosa più importante, la assecondai sempre in ciò che consideravo un delirio, cioè quel transfert che la portava a definire quell’animale “mio figlio”.
Andava tutto bene finché potevamo parlare tutti i giorni.
Poi, cinque anni fa lasciò il lavoro.
I tempi tra un messaggio l’altro si allungarono, gli amici comuni restarono idealmente assegnati a me in quella sorta di divisione dei beni post divorzio, diventammo come lontane parenti e poi utenti
social. Ebbi una grave infezione, in ospedale per settimane, postavo le foto e gli amici mi incoraggiavano, ma lei no. Del resto io stessa scoprii che aveva divorziato dopo tanto tempo, da certe foto che la
ritraevano con un altro uomo, chiaramente avevo perso qualche post e a quel punto era tardi per partecipare alla gioia di quella nuova relazione con un commento. Lei non aveva visto cosa era
successo a me e io non mi ero accorta della sua nuova vita.
Continuava a scrivere post irritanti su quanto se ne fottesse del giudizio degli altri e amasse il suo corpo, mentre io rispondevo pubblicando post salutisti sulla necessità di essere normopeso.
Era come guardarsi in cagnesco, urlare delle frasi al vento e non affrontarsi mai.

Ero felice di leggere che la sua vita finalmente la soddisfaceva, mi rendevo conto di quanto amassi pensare a lei in quella situazione così nuova e piena, ma non facevo più parte di lei, ero esclusa da
tutto. Lei mi leggeva e io la leggevo, post che non si incontravano mai.
Cucinava certi piatti unti per lui che amava essere coccolato in cucina e postava le foto, la fiera del fritto, ma Cristo Santo, non si rendeva conto del danno che faceva alle sue arterie? Io postavo articoli su influencer del grasso corporeo che incitavano le ragazzine ad accettare passivamente il sovrappeso, insistevo su quanto fossero pericolosi quei messaggi, perché ci sono patologie gravissime legate
all’obesità e non si può trattare l’argomento liquidandolo dal punto di vista estetico e sociale. Per anni siamo andate avanti fingendo di ignorarci e invece, forse, ci rispondevamo a vicenda.
Ieri ho aperto un nuovo account su un social mai usato prima e quello strumento del demonio è riuscito a trovare i miei contatti Facebook per propormeli. Io dico, se volessi parlare con quella gente userei l’altro social, non credi? Invece l’ho abbandonato lì, senza più usarlo, proprio perché quegli amici non voglio vederli più.
Puntuale come le emorroidi dopo la diarrea, arrivano i suggerimenti di amicizia, ciao, ecco le persone che potresti conoscere. E c’è Ale.
Con quella faccia felice mentre abbraccia il nuovo fidanzato, mi guarda e mi provoca, come per dire, vedi? Sono felice. Grassa e felice. Tu invece, brutta stronza livorosa? A che punto sei con la tua vita? Sono al punto di prima, quando ho pensato che non avrei mai più usato l’account di Facebook che continuava a ricordarmi che avevo foto con te, ricordi con te, vuoi rivivere i momenti con Ale?
No, non voglio grazie. Sai perché? Perché neanche mi ricordo quando siamo diventate fredde l’una con l’altra, è passato tanto tempo. Non ho usato Facebook per anni perché mi aveva stufato, poi mi annoiavo in ospedale e l’ho riaperto, e tu non ti sei fatta viva.
Anch’io ho evitato di rispondere ai tuoi stupidi post motivazionali.
Persino quel social imbecille si è accorto che tra noi c’era distanza e ha smesso di propormi le tue sciocche recriminazioni, così tu avrai perso di vista le mie maledette frecciatine.
Sei mesi fa non ho visto i post di cordoglio delle tue amiche, quelle vere, quelle che avevi trovato quando ti sei trasferita lontano. Decine di foto dove sorridevi con loro, eri felice e soddisfatta di te stessa perché avevi avuto il coraggio di uscire da un matrimonio che ti rendeva infelice, avevi trovato un lavoro che ti piaceva, un uomo con cui fare quelle foto cretine abbracciati sul letto, tutta orgogliosa e piena di vita.
Non ho mai messo un like a quelle immagini, non volevo farti sapere quando gioissi per te, non te lo meritavi perché eri stata tu ad abbandonare me. Non ti avrei mai concesso un segnale di amore e
partecipazione per la tua nuova, meravigliosa vita. Non hai mai saputo che sorridevo e borbottavo come una pentola a pressione, commentando i tuoi sproloqui social, felice per te. Perché dovevo
far finta di non esserci, mentre quella che a breve non ci sarebbe stata più, eri tu.
Un altro ex collega che aveva mantenuto i contatti con lei, lui lo sapeva. Mi scrive, hai letto di Ale? Sono distrutto. Corro sul suo profilo e trovo una sorta di battibecco a distanza tra i genitori, le amiche nuove, le amiche vecchie e il fidanzato, tutti sapevano che non c’era più e siccome aveva scelto di vivere lontano, lì dove si sentiva felice, allora tutta quella folla di persone reali si accapigliava per decidere delle sue spoglie. Io mi sentivo ubriaca, leggevo, cercavo di capire, ditemi di cosa cazzo è morta! La tomba, le ceneri, che ceneri? Perché? Perché si trasporta più facilmente. Ma cosa? In tre secondi scopro che Ale è morta e quella discussione era cominciata tre settimane prima, adesso era già sabbietta finissima.
Volevo vomitare, non c’era più manco un corpo che più freddo non si può. Ormai la si poteva respirare. Mi sembrava una cosa crudele, uno strazio, un affronto fatto a me, capito? A me. Non ho pianto
una lacrima, incazzata nera perché lei mi aveva esclusa, continuando a sostenere le sue posizioni assurde. Ho pensato di togliere il like dal profilo, veramente molto profonda come riflessione: ti tolgo il like
su Facebook. Ma alla fine non ho neanche chiuso il mio di profilo, perché lei era ancora lì, con le sue stupide foto di coppia, i suoi fritti imbecilli, la sua vita bella quanto lei, adorabile come la sua risata che non ha perso una nota nei miei ricordi, il suo modo di prendermi in giro con ironia e leggerezza. Non ho chiuso il mio profilo Facebook dove ho riposto la risata di Ale, con la stessa cura con cui lei aveva
preparato il pacco regalo per mio figlio. Ma non volevo più vederla, desideravo solo sapere che era lì.
Poi ho aperto sto cazzo di altro profilo e lo stupido social mi ha chiesto se volevo entrare in contatto con lei. Questo meccanismo prevede che io chieda l’amicizia a una morta, che per la precisione oggi non è altro che un mucchio di briciole di vita scivolata via, per poi restare in attesa che la mia richiesta venga accettata. Per sempre.
Come la riconosco in questa diavoleria da strapazzo.
L’ennesimo scherzo di Ale.

©Ale Ortica

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