In the name of boredom,
an angel goes through hell
Leonardo Cassi
La linea blu sul monitor è continua e io sono ancora vivo.
Almeno fino al prossimo check-up.
Ho la bocca impastata. Mi passo la lingua sui denti: sono ruvidi.
“È la demineralizzazione, bellezza”, penso.
E aggiungo: “Per fortuna non devo baciare nessuno”.
La mia risata ha un suono tetro.
Una voce sconosciuta mi sussurra all’orecchio la storia di Johnny e Mary.
Il lettore mp3 è quasi un reperto archeologico ma funziona ancora bene.
L’ho trovato per caso, frugando in una stanza in disarmo, all’ultimo piano dell’Istituto.
È vietato aggirarsi per i reparti ma le ore di veglia non passano mai.
Un sacco di cose sono vietate, nell’era post-atomica.
Cosa stavo dicendo? Ah sì, il lettore di mp3; è così antidiluviano da sfuggire al controllo dell’intelligenza artificiale avanzata che governa la mia postazione.
Avanzata ma non furba. Due cose non sa fare: rilevare le basse frequenze e replicare la Vita.
Migliaia di raggi impercettibili mi attraversano, ogni giorno. Me li immagino come i filamenti di un’aracno-medusa.
Ogni mia espressione fisica è tracciata, analizzata, codificata e restituita sotto forma di linea.
Color blu cobalto.
I pensieri, invece, mi appartengono in esclusiva. Uno dei piccoli privilegi della casta dei Non-Radiati.
A rifletterci bene, non so se sia un gran guadagno.
I miei cicli sonno-veglia sono così alterati che talvolta baratterei senza indugio i miei incubi con una scansione cerebrale o un sondino parietale a flusso continuo.
Sarebbe la pace. Sarebbe una resa.
Alzo il volume, la musica in cuffia mi difende.
Nel silenzio della mia reclusione, il ronzio del Galaxycon è peggio di un acufene.
Letale, come il canto delle sirene.
Se mi fisso ad ascoltarlo lo avverto percorrere i miei condotti uditivi e conficcarsi nei timpani.
Vorrebbe trapassarmi la duramadre, il bastardo.
Se ci riuscisse, sarei finito: un demente, materiale di scarto buono solo per precipitare dalle terrazze dell’Istituto.
Quanti di noi non hanno retto? Quanti hanno ceduto alla pressione?
Troppi.
Mi sale un tremito, sudo al pensiero.
La linea sul monitor si opacizza, inizia a pulsare.
Se lei è blu, io sono vivo.
Ma è vita, questa?
Forse no, ma è tutto quello che ho.
La vita vera l’ho persa un giorno di marzo quando tutti i cieli del mondo presero fuoco, allo stesso tempo.
Un’ecatombe atomica globale.
Noi ci salvammo perché io mi ero nascosto nel sotterraneo, solo per il piacere di darti fastidio.
Leggevo I viaggi di Gulliver illuminato da una fioca lampada di servizio.
Era un libro vero, di carta. Come già non si trovavano più.
Compitavo le parole seguendole con il dito sulla pagina quando tu apristi la porta, venendo a cercarmi.
Fu questione di un attimo e avvertii la copertina plasticata farsi molle nelle mie mani.
La luce abbagliante percorse le scale e ti avvolse come un mantello di seta.
Ti rubò il tuo essere senziente, lasciando il tuo cuore a battere in un involucro brunito, accartocciato.
Ho perso il conto degli anni che ho vissuto attaccato a questa macchina che trasfonde il mio DNA nei tuoi tessuti.
Questa è la mia ultima occasione, la mia ultima vita.
So di non aver ho più tempo: la demineralizzazione colonizza le mie cellule attimo dopo attimo.
Questa linea blu è il cordone ombelicale che ci lega.
Se lei è blu io sono vivo.
E un poco lo sei ancora anche tu, Madre.
©Maria Elena Poggi, 2020
©Foto di copertina Leonardo Cassi