Lena si accosta al tavolo. Passa velocemente la spugna dove qualcuno prima di me ha lasciato tracce di pistacchi, e tovaglioli sbriciolati, e orme di birra colata giù dalla pinta.
Ha trovato questo lavoro da qualche settimana, ha paura di perderlo, ha paura di tutto. Arrivata in questa città a forza di passaggi sulla Statale, si era fermata qui per via del mare. Ci aveva abitato da bambina, sul mare, pochi anni vissuti in un villaggio rurale polacco sulla costa del Baltico dove il rumore delle onde, di notte, era simile a un lamento soffocato. Poi è arrivata l’adolescenza come una catastrofe, la sua bellezza di ninfa da portare lontano, quel futuro sognato da copertina, il fidanzato che si trasforma in orco come nelle favole. Che invece di abbandonarla nel bosco la vende dentro le notti italiane per quattro soldi.
Appena entrata nel locale ha detto subito al proprietario che non teneva un soldo, ma fame, ecco, quella sì. Aveva aggiunto che non le capitava spesso, tuttavia. Poi era rimasta un attimo in silenzio a guardare la reazione dell’uomo. Senza rendersene conto aveva appoggiato la testa al muro e, infine, si era sciolta in pianto. Un pianto quasi senza rumore, una specie di suono diremmo; ingoiava i singhiozzi come biglie di vetro, uno dopo l’altro giù per la gola.
Nemmeno di piangere le capitava spesso anzi: quasi mai e, insomma, non voleva dare un’impressione inconsueta, di donnina nevrotica e labile. In quel momento esatto, poi, si era pensata puzzare di un odore rancido, di quegli odori selvatici che alla lunga non ti senti nemmeno più addosso, si era pensata brutta con i capelli incollati alla testa, le labbra spaccate e asciutte. Aveva gettato un’occhiata veloce ai suoi jeans luridi, al maglioncino di cotone che faceva penzolare fili smagliati. E aveva cercato di sistemarsi qualcosa in fretta, forse la spallina del reggiseno slabbrata, forse il colore del cuore ormai nero.
Lascia perdere, gli aveva detto il tizio, ma col tono di chi ne aveva capito qualcosa in più di tutta quella storia. La ragazza gli ricordava uno di quegli animali che hanno preso parecchie bastonate e così hanno paura dell’uomo, tuttavia si avvicinano lo stesso, col loro modo di camminare lento, gli occhi spalancati puntati verso l’alto; le orecchie basse. Quelli che si avvicinano per fame o per fatica aspettando di capire se quella volta gli arriverà addosso un calcio o una carezza.
Si chiese cosa mai avesse fatto di male quella creatura per meritarsi di vivere tutta quella merda.
Le chiese se avesse i documenti. Non voglio i guai degli altri, già i miei sono abbastanza, aggiunse. Aspettò che la ragazza rovistasse dentro il vecchio sacco arancione a motivi messicani che portava a tracolla e tirasse fuori la sua tessera d’identità: ci buttò un’occhiata senza nemmeno prenderla in mano. Restando in silenzio aprì un cassetto, tirò fuori un grembiule e glielo mise tra le mani.
Non è difficile portare birre ai clienti, le disse infine, aggiungendo anche di non fare eccessive storie se qualcuno cercava di toccarle il culo.
«Se ti capita vieni da me. Non dire nulla e vieni dritta da me, io so come fare. Cominci domani. Ti preparo un panino.»
«Sono vegetariana.»
«C’è altro da sapere?»
«Nemmeno troppo.»
«Allora vai a sciacquarti. Per i primi giorni dormirai nella branda sistemata nel magazzino, poi si vedrà il da farsi.»
Mi dice che, se tutto va bene, presto avrà una stanza vera in un appartamento di studenti dove metterci i libri che Sergio le regala, che le appoggia sul letto, sempre senza parlare troppo. Se la immagina già: il primo giorno porterà dei fiori a corolle odorose così profumeranno la camera, l’aria e anche qualche pezzetto del suo passato: perché Lena adesso è salva.
©Katia Colica, 2019