a Francesca
Scania è l’ultima parola che ricordo. Il resto non è più.
«Se almeno avesse avuto la cintura…» hanno detto i vigili del fuoco.
«Sembra un puzzle…» ha detto uno degli infermieri, mentre raccoglieva i miei pezzi.
«Una gran carambola» hanno detto i carabinieri, «…salto, sponda e buca col botto».
Non avrei mai pensato di morire in un incidente. Non in uno così spettacolare, quanto meno. Io che ho passato la vita di lato, da comparsa. Mimetizzata più di un camaleonte.
Eppure la mia fine pirotecnica era lì. Aspettava dopo la curva. Mentre crescevo d’impaccio, con la timidezza e tutto il suo corredo a rinchiudermi in un guscio che neanche possedevo, la geometria euclidea tracciava rette e stabiliva coordinate. Mentre infilavo scelte sbagliate una dopo l’altra per il timore di espormi, lei mi aspettava. Mentre ero impegnata a detestare il mio corpo, sempre troppo – grasso, basso, piatto – o troppo poco – tonico, liscio, elastico – il tempo mi avvicinava implacabile all’ora X.
Sono arrivata all’incrocio delle rette a una velocità media di settanta chilometri orari. Sessantasette a voler essere precisi. Forse lo desideravo, l’avevo sempre desiderato. In un angolo neanche troppo recondito la parte di me troppo vigliacca e indecisa per farlo davvero, coltivava in un vaso l’idea di essere tolta di mezzo.
È così che funziona, ora che sono da questa parte lo so: l’universo ci restituisce lo stesso tipo di energia che generiamo. La mia era quella fiacca e antipatica di un’umana insoddisfatta, capace di vedersi solo con gli occhi del limite e non della possibilità.
Pensavo che nessuno mi avrebbe mai amata. Sono stata la prima a non farlo. Mi sentivo brutta. Non che lo fossi: ma esiste solo ciò che crediamo. Mi sono data al primo che passava, al primo che mi ha degnata di uno sguardo. Uno che ha confuso scopare con sposare, con la stessa leggerezza con cui io non ho badato alle consonanti. Così grazie alla mia scarsa autostima, l’universo mi ha restituito le mie ossessioni amplificandole attraverso le critiche feroci di un uomo che mi metteva le corna già una settimana prima delle nozze.
«Con quella cellulite puoi mettere la buccia a tutte le arance di Sicilia e te ne avanza ancora» era uno dei pochi complimenti riferibili che mi faceva. Anche lui aveva per me gli occhi del limite e nessuna possibilità. Avevo trovato ciò che cercavo. Il resto erano scuse: mie per piangermi addosso, sue per tradirmi. Mi sentivo brutta e non sapevo che mi sarei imbruttita ancora di più, coperta da disamore, umiliazioni e violenza. Vista da qui mi faccio una pena immensa. Ora che sono libera, ora che ho capito.
Sono andata incontro al mio destino a sessantasette all’ora, colpevole di non aver nemmeno provato a vivere. Mi sono fatta passare sopra tutto, compreso il furgone che mi ha tamponato, facendo schizzare la mia macchina contro il muso della cisterna: una carambola precisa, una fine orrenda.
«No, non ce l’aveva la cintura…» hanno detto quei poveretti che hanno dovuto raccogliere i miei pezzi. Non ero proprio un gran spettacolo dopo essere schizzata come un proiettile trenta metri fuori dal parabrezza.
«E queste cosa sono?» ha chiesto uno degli infermieri, reggendo nei guanti una manciata di sassolini bianchi raccolti dall’asfalto. «Sono le perle, i bozzi della cellulite» gli ha fatto eco la collega che in quanto donna ne sapeva: «Una brutta cellulite nodulosa».
La cellulite non me la sono mai curata: non ho amato il mio corpo e non ho amato la mia vita. Ho commesso l’errore più grande. Quelle perle sono state la prima cosa bella che ho visto di me. E chissà, forse c’era anche dell’altro…
Se rinasco voglio essere la possibilità, non il limite.
©Anna Martinenghi, 2019