Com’è una camera mortuaria allestita in una casa di campagna? Per prima cosa è al piano terra, perché il vicinato non puoi costringerlo a salire le scale per arrivare di sopra. Sono cortesie a cui bisogna fare attenzione.
La bara è al centro della sala, di solito una cantina messa in ordine. Tutt’intorno sono disposte le sedie dove stanno sedute le vecchie e i vecchi del paese. Le luci sono quelle delle candele, messe a corona della bara e agli angoli della stanza. C’è odore di muffa e di aceto. C’è odore di case che hanno vissuto.
Eppure non è mai lo stesso santuario. Dipende dal morto, sempre.
Quando nella bara c’era mia madre, la stanza sembrava avvolta da una luce propria. Forse ero io che la vedevo così. Forse erano le fiamme che riverberavano sulle lacrime mie e di chi stava seduto intorno. Il dolore accende. I ricordi alimentano. È la combustione dell’anima di chi rimane.
Adesso l’atmosfera è cupa, buia. Le luci delle candele sembrano soffocate, divorate dall’assenza di vita, ma anche di dolore. Perché nella bara in mezzo alla stanza c’è mio padre.
Quelle dell’ospedale erano luci bianche. Terribili. Fredde. Tutto sembrava annegato nel marmo. Statue senza forza né movimento, ecco cosa eravamo. Per questo mia madre volle morire a casa sua. Eppure le ultime parole che lasciò a me arrivarono in quella stanza bianca, senza vita.
«Quando morirà lui, non seppellirlo accanto a me. Ti prego».
Lo disse in un flebile sussurro che bruciò il bianco intero. Sgretolò il nostro passato, quello che avevo fatto finta di non ricordare. Bruciò tutto.
Non dimenticherò mai il sorriso che ammantò d’ombra il giorno del suo funerale.
Sorriso di marito e di padre.
«Ho comprato il loculo accanto a quello di tua madre. Ho lasciato scritto di essere messo lì» disse.
Lui le conosceva, le ultime volontà di sua moglie.
Adesso la camera mortuaria allestita in una casa di campagna è nella penombra, perché le persone vogliono stare poco con chi non ha mai illuminato niente. Sono tonfi d’oscurità quelli che si aprono sugli zigomi, sull’incavo del collo, tra le nocche conserte a preghiera, ma troppe volte sbucciate e gonfie per i colpi dati a sua moglie e a sua figlia, finché è rimasta. Sono abissi.
Eppure sulle labbra scorgo il sorriso per la destinazione prossima, a godere della luce di una donna che non è mai potuta scappare, e che per testamento non potrà farlo nemmeno da morta.
Le cantine delle case di campagna, quando diventano camere mortuarie, non si svuotano mai del tutto. Si dilatano nell’ordine, però certi oggetti rimangono. Sacchi di iuta arrotolati, fascine di spighe coperte da panni di cotone, bauli e cartoni pieni di carte, ciocchi di legno.
Ho detto a tutti che rimarrò io alla veglia notturna, che non voglio nessun altro. Sono stati contenti. Così adesso siamo io e l’ombra tremula del silenzio. Fuori, la notte scura, senza stelle.
Rovescio le candele sui sacchi di iuta, sulle fascine di spighe scoperte, spargo un po’ ovunque le carte recuperate dai bauli e dai cartoni. Le fiamme avvampano a poco a poco e io scopro la luce di una camera mortuaria che diventa rogo.
Esco e mi fermo alla giusta distanza. Fa freddo, ma a scaldarmi è il fuoco che presto avvolge tutta la casa. Non chiamerò i pompieri. Aspetterò che sia qualcun’altro a farlo. Nel frattempo, non sarà rimasto più niente. L’eredità di una storia che non è mai stata d’amore è la cenere di un incendio. E la cenere di un incendio si può solo far finta di seppellirla. Nessun corpo nel loculo vicino.
Penso a tutto quello che perdiamo nel fuoco e a tutto quello che il fuoco rende. Tipo, gli ultimi desideri, in bilico tra la vita e la fiamma. E la luce dei morti, che riverbera negli occhi e nell’anima di chi rimane.
©Alessandro Morbidelli, 2020
Il racconto è stato ispirato dalla canzone “End credits” di Gustavo Santaolalla e Johan Söderqvist, presente nella colonna sonora del film “Things we lost in the fire” di Susanne Bier (2007)