SARTO PER SIGNORA
Ho ricordi della mia infanzia che vorrei non avere. Appartengono alla stanza di una casa che non esiste più. Là sono stato bambino da meno nove mesi fino ai quattordici anni.
Nella stanza, che chiamavamo pomposamente “sala”, c’era uno specchio. C’erano anche altri mobili: un divano, una lampada, un tavolo da pranzo, una credenza e un’angoliera che sosteneva una televisione ingombrante, di quelle col sederone. Lo specchio era l’oggetto più importante per mia madre. Per me era la televisione e questo è il primo ricordo che vorrei modificare. La sala doveva sempre rimanere in ordine: mia madre era sarta, lavorava in casa. Si usava così a inizio anni settanta.
Vorrei aggiungere altre stanze al cucinino ammucchiato alla stanza dello specchio e alle due camere da letto con servizio dove vivevamo. Lì mi sarei potuto nascondere, quando arrivavano “le signore”.
«Io non faccio l’uomo» precisava mamma quando glielo chiedevano «Posso fare riparazioni, accorciare gli orli, ma per un abito su misura deve andare da un sarto maschile, è tutta un’altra scuola. Io son sarta per signora».
Le signore erano il mio incubo. Mamma era brava, precisa, sapeva fare tutto con ago e filo, per questo aveva molte clienti. Ne aveva di tutti i tipi: giovani, anziane, bambine, ragazze, ma per quanto mi sforzi, nella prima infanzia, ricordo solo le anzianotte. Si affacciavano come testuggini centenarie sul bordo della mia culla, facendomi sobbalzare, avevano la testa piccola e il corpo enorme. Mi afferravano e spupazzavano, emettendo suoni gutturali e versi scemi «Come sceiii bello, scii». Crescendo cominciarono a prendersela con le mie parti morbide. «Ma guarda che gambotte! E queste guance di chi sono?».
Le guance erano mie e avrei voluto gestirle da solo, invece finivano sempre per essere tirate, pizzicate, accarezzate, sbaciucchiate. Finché mantenni la misura da bambolotto, posso dire di essere stato un vero e proprio “toy-boy”. Uscivo dalle loro visite con la pelle arrossata e una sensazione umida addosso. Le signore non mi piacevano.
Crescendo andò ancora peggio. Verso i cinque-sei anni, cominciai a detestarle davvero. Arrivavano sempre all’ora dei cartoni animati. Erano altri tempi: i canali televisivi si contavano sulle dita di una mano , non esisteva il telecomando e la tv dei ragazzi durava pochissimo.
«Spegni la televisione!» intimava la mamma, quando suonavano il campanello. Provavo ad abbassare tutto il volume, ma mi andava bene solo di rado, perché mamma considerava maleducazione lasciare accesa la TV in presenza di ospiti. Molte cose erano maleducazione allora. Così, ammainata la bandiera di bravo bambino, issavo quella di bambino disturbato, come fanno i pirati prima dell’attacco. Sotto il teschio da seienne incrociavo le tibie a X.
Alcune signore non mi consideravano neppure, mi salutavano volentieri come si prende una medicina e poi si scordavano della mia presenza, tutte prese dalla lunghezza della gonna o dal giromanica. Altre -le peggiori – mi bombardavano di attenzioni. Dovevano essere dure di comprendonio, perché domandavano ogni volta «Come ti chiami?». Il vento gonfiava la bandiera. Un pirata risponde al nemico solo con il fuoco.
La mamma allora ci metteva del suo: «Su, rispondi alla signora, fai il bravo». Mi sarei fatto cucire le labbra con gli spilli, piuttosto.
«Non avrai mica vergogna?». Sì, ne avevo: mi vergognavo per loro. Non sopportavo che si spogliassero in mia presenza. Mamma le invitava a spostarsi in cucina, ma niente, io non contavo niente. Sarà stata l’età, la rabbia o chissà cosa, ma a me parevano tutte vecchissime, dei dinosauri. Non erano come la mamma, erano più complicate: sotto i vestiti, avevano l’armatura. Sottoveste, busto, maglia della salute, reggipetti color carne, pancere, reggicalze e fazzoletti. Alcune portavano gambaletti di nylon tirati fin sopra le ginocchia, che lasciavano scoperte cosce flaccide e bianchicce da gallina lessa. Le guardavo come avrei guardato un armadillo, con un misto fra curiosità e disgusto. Il peggio però era d’estate, quando si presentavano senza calze, con le ciabatte scalcagnate. Non avevano dei piedi, – orrore! – avevano dei grossi rospi rugosi dalla pelle spessa e i talloni screpolati. Ero felice di essere un maschio e non una testuggine.
Eppure, altre donne mi facevano un effetto del tutto diverso. Alice e Ellen, furono le prime a farmi sentire un vero uomo. “Da-da-umpa”. Oh, quelle gambe chilometriche, le caviglie affusolate, il vitino da vespa. “Da-da-umpa”. Ero piccolo, ma con le Kessler era un’altra la bandiera che si alzava al vento, niente pirati. “Da-da-umpa”. Perché le Kessler non venivano a fare un abito dalla mamma?
Crescendo la curiosità verso il mondo femminile prevalse sul disgusto. Cominciai a sbirciare con più attenzione le prove abito, mentre fingevo di essere assorto nella lettura di Tex. Intorno all’età delle scuole elementari, mi accorsi che dalla mamma non venivano solo donne anziane. Erano gli anni dei figli dei fiori: i pantaloni finivano a campana, i colli delle camice avevano punte taglienti e le fantasie degli abiti erano disegnati di sicuro sotto l’effetto dell’LSD. Sulle tende in sala campeggiavano delle geometrie tonde, incorniciate da bordi verde e arancio fluo che imbrogliavano gli occhi e il buon gusto. Lo specchio ora rifletteva ragazze più giovani, dai capelli lunghi e gli occhialoni da insetto. Non erano proprio come Alice e Ellen, ma sotto i jeans attillati, sopra le zeppe altissime avevano corpi elastici e flessuosi. “Da-da-umpa”.
Anche loro non mostravano nessun interesse nei miei confronti. Ero offeso, perché io ne provavo moltissimo verso di loro. Erano allegre e chiassose, masticavano chewing-gum e non portavano le armature delle vecchie sotto i vestiti. Si spogliavano velocemente e velocemente s’infilavano nei pantaloni che mamma sistemava, o in ampie gonne a fiorelloni. Anche se non badavano a me e nonostante la loro disinvoltura, mi porgevano solo la schiena nuda. Il reggiseno lo avevano bruciato da un pezzo. Ero diventato un contorsionista per riuscire ad avanzare con lo sguardo di qualche centimetro in più. Sarebbe stato più semplice invadere la Polonia. Purtroppo il mio ardore fu ripagato da gran un brutto colpo, uno di quei traumi indelebili che vorrei davvero cancellare, o almeno modificare con Photoshop.
Giocavo sul pavimento, con i Lego, avevo sparso mattoncini ovunque, per non dare troppo nell’occhio. Sapevo che di lì a poco sarebbe arrivata Fiorella. L’artiglieria era pronta. Fiorella era simpatica, mi sorrideva sempre e le piacevano i fumetti. Questa volta non avrei mollato la posizione. Fiorella arrivò, mi salutò allegra:“Ehilà, Nembo Kid!”. In un attimo i jeans finirono sul divano.
Aveva delle gambotte per niente “Da-da-umpa”, delle mutandone di cotonina e delle caviglie a colonna dorica, ma erano le “parti ampie” a interessarmi. La mamma la aiutò a infilarsi uno svolazzante abito giallo canarino, di quelli con le spalline sottili. Io ero pronto a godermi il panorama, ma l’unica cosa che ricordo è il rigoglioso ciuffo di peli che spuntava dalle sue ascelle.
Non un ciuffo: una piantagione, un sottobosco tropicale, un orto di insalata. I miei Lego legionari si ammosciarono con me. Non era come la mamma, non era come le Kessler, Fiorella era pe-lo-sa come un macaco e io a sette anni, un maschio schizzinoso e esigente.
Continuai a fantasticare con Alice e Ellen, finché non arrivò Gigliola a giocare a flipper con i miei ormoni. Gigliola – “La Giglio” come la chiamavano tutti – era una figlia degli anni ottanta. Nel frattempo le zampe di elefante si erano estinte in favore di giacche da rugbisti, con le spalle enormi, i capelli bruciavano in permanenti rabbiose, i reggiseni erano tornati e cominciavano a essere imbottiti. Madonna cantava “Like a virgin” e io rischiavo di diventare cieco ogni giorno.
Quella fu l’ultima prova d’abito a cui mi fu concesso di partecipare.
«Ci sono cose che non stanno bene a nessuno» sbottò mia mamma quando la Giglio se ne andò. «Un minimo di decenza, quanto meno». Per la prima volta non mi trovai d’accordo con lei: avevo sopportato rospi e scimmie senza protestare. Ma le mamme invecchiano e i figli crescono. La Giglio era depilata, aveva uno stacco coscia accettabile e delle caviglie quasi sottili, ma soprattutto fu il primo esemplare femmina a cui vidi quel tipo di biancheria intima che bisognava indovinare sul didietro. Quel modello non c’era nemmeno su Postalmarket. “Da-da-umpa, Da-da-umpa”. Alice e Ellen mi salutavano con la mano, mentre mi facevo un giro sulle montagne russe della tempesta ormonale.
Ho ricordi della mia infanzia che vorrei non avere. L’analista dice che è una cosa normale, mentre compila le fatture. Io sono diventato un uomo complicato, esigente e con mille manie. I dettagli sono importanti per me. Ho imparato da mia madre che l’eleganza sta tutta lì, è una dote innata che bisogna coltivare per tramutarla in fascino. In un certo senso, ho seguito la sua strada.
Mi piacciono le donne, ma non ho mai trovato quella giusta, per via della mia mania di perfezione, credo. Così le sistemo: le faccio a pezzi, mi sono tolto tante soddisfazioni. In fondo, non sono che un sarto per signora anch’io. Sono famoso per le mie “tette a goccia”, nessuno le sa rifare meglio di me. Base rotonda, capezzolo impertinente. Le mie signore mi adorano, sanno che le capisco, che le ricucio su misura. L’uomo non lo faccio, è tutta un’altra scuola. Io son sarto per signora!
La plastica non basta, è solo l’inizio. Consiglio sempre una buona pedicure, una depilazione accurata, trucco e abiti di un certo tipo. E’ così che cancello rospi, macachi e armadilli.
La mia donna ideale resta sempre una coppia di gemelle bionde.
“Traversando tutto l’Illinois – valicammo il Tennesse -senza scalo fino a qui –è arrivato il Da-da-umpa – Da-da-umpa – Da-da-umpa – DA-da-umpa. Umpa!”
fantastico come sempre anche questo racconto 🙂
Misha
🙂 GRAZ!!!!