UNA CHE MI SOMIGLIA
«Deve firmare qui…» ripete la ragazza dallo sportello con tono paziente. Mi indica per la seconda volta il modulo del versamento. Più che la voce è lo scintillio delle sue unghie glitterate a scuotermi dai miei pensieri. Resto imbambolata, non avrei mai pensato si potesse mettere tanta roba in uno spazio così piccolo.
Abbasso lo sguardo. Ora è lei a fissare me e nel suo sguardo c’è l’incoraggiamento riservato a chi dopo una maratona è preso dai crampi a cento metri dal traguardo. Produco una specie di scarabocchio accolto dalla ola della di-rosa-vestita-impiegata e dal tintinnare metallico della cascata di ninnoli che porta ai polsi.
Chiedo la lista dei movimenti e un altro paio di documenti inutili per prendere tempo. Continuo a osservarla. Faccio sempre la fila al suo sportello, quando vengo in banca. È gentile, simpatica, sveglia. Tutto in lei è eccessivo: i capelli ossigenati, quasi bianchi da moderna Marilyn sbattono contro un’abbronzatura fuori stagione e fuori moda, la cascata di lustrini appiccicati ovunque, quasi avesse attraversato una tempesta di strass. Ne ha sulla spessa montatura degli occhiali a gatto, sul bordo della maglia rosa, sull’ombretto pesante, sulle unghie a più strati, sulla borsa appoggiata a lato della scrivania, sugli stivaletti fiorati e sui giri di collane e bracciali che si porta dietro. “T’insegneranno a non splendere e lei splende, invece!”, anche se non credo che Pasolini avesse in mente questo tipo di abbaglio. C’è qualcosa in questa ragazza di magnetico e stonato che mi ha sempre attirato e respinto, proprio come una di quelle lampade dove d’estate falene e zanzare finiscono alla graticola.
Stamattina la rivelazione.
«Puoi andare tu in banca al posto mio?» è stata la domanda retorica del mio responsabile d’ufficio-mediamente-intelligente ingolfato in una marea di carte.
«Ok.»
«Il versamento è già pronto: c’è solo da consegnare e firmare. Se vai dalla tipa che ti somiglia fai in attimo, è veloce quella…»
Inghiotto a mezza voce un «Chi? La tamarra?», mentre quella frase: “La tipa che ti somiglia” mi si tatua in fronte, lampeggiando con le quattro frecce accese e spalancando un oblò d’intuizione rimasto incastrato per troppo tempo.
Ecco cos’era: la tipa è tamarra e mi somiglia. Ora che lo so, la passo allo scanner con curiosità e terrore, fingendo di scorrere i movimenti del conto corrente della ditta. Abbiamo in comune un profilo non proprio francese, labbra sottili, il viso lungo, triangolare. Mettiamola così: potrebbe essere mia cugina. Va bene, va bene: sorella anche, ma solo da lontano e con gli occhiali da sole. Sì, perché poi l’intelaiatura è diversa. Lei sembra costruita con due metà di donne diverse. È secca, secca fino alla vita e poi è avvitata su fianchi poderosi che mica nasconde, anzi. Ed è questo il punto: tutto in lei è esibito, sottolineato, esagerato, al contrario di me che nascondo e mimetizzo manco fossi un camaleonte. Forse non sarei neanche malaccio con il culo grosso. Perché sono i difetti che si devono saper portare, mica i pregi. Lei ha quel che io temo di non avere: personalità. Tamarra certo, ma audace.
E così immagino una frequenza di me stesse da zero a cento, un catalogo di donnine che si somigliano messe una accanto all’altra con più o meno glitter addosso, una mastrioska orizzontale che parte una femmina scialba a una splendente donna-albero di Natale. Il selettore oscilla fra me e la mia versione tamarra – ehm, più spensierata… – fra me e tutte quanto non ho il coraggio di essere. Mi accorgo che la manopola è comunque in mano mia.
«È corretta la situazione?» chiede quella- che-mi-somiglia con una gentilezza più splendente dei glitter.
«Non ancora» rispondo più a me stessa che a lei «ma ci lavorerò!»
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© Anna Martinenghi, 2018