Nell’inverno fra il 1943 e il 1944 il bosco della marchesa Simonetti venne definitivamente raso al suolo: dove fino a due anni prima crescevano rigogliosi pioppi destinati alle cartiere non restavano che erbacce e qualche arbusto.
A partire dal ’42, notte dopo notte, albero dopo albero, le famiglie della zona avevano portato via tutto quello che poteva essere bruciato nelle stufe e nei camini.
All’inizio il fattore della marchesa aveva provato a fermare la razzia, ma lui e i suoi operai erano stati dissuasi dagli sguardi incarogniti dei poveracci che cercavano di non morire di freddo: in pratica, tutto il paese.
Gli abbienti erano pochi, due o tre famiglie, gli altri arrangiavano i salari fra le fornaci in primavera e in estate e la campagna.
Se non si morivano di fame, poco ci mancava.
La repubblica di Salò aveva preso il posto del regno dei Savoia, i tedeschi imperversavano, i repubblichini erano feroci e spietati, il duce vaneggiava di imminenti vittorie e gli alleati che venivano a liberarci avevano deciso di iniziare bombardandoci senza pietà.
La povera gente viveva di stenti e paura.
Tutti, chi più chi meno, facevano la borsa nera e tutti, chi più chi meno, rubavano.
Ogni dieci giorni, dal treno che partiva da Genova arrivavano i borsari che in campagna comperavano tutto quello che potevano: frutta e verdura di stagione, uova, qualche gallina vecchia e striminzita. Tutte cose che avrebbero venduto a caro prezzo al mercato nero in città.
Una pacchia per le famiglie come la mia, dove patate lesse, patate cotte e patate bollite erano i pasti più ricorrenti: significava raggranellare qualche soldo da spendere in inverno, quando la terra non produceva quasi nulla.
Una pacchia almeno fino a quando i miei genitori non incapparono in un pagamento con soldi falsi.
Erano poco avvezzi a maneggiare denaro, figurarsi se erano in grado di distinguere le banconote finte da quelle vere. Ricordo i loro pianti disperati, le bestemmie, il senso di sconfitta e di umiliazione, la paura di non riuscire a mettere in tavola nemmeno il poco di ogni giorno.
«Dio vi ha puniti per aver rubato la legna e aver fatto commercio illecito!» aveva sentenziato zia Erminia, fervente cattolica, sfollata da Milano, da sei mesi ospite da noi.
«Non aveva proprio niente di meglio da fare il tuo dio che darci il carico da 90 a noi poveretti?» replicava mia madre, comunista, figlia di comunisti e sorella di partigiani.
Erminia era la vedova del primo dei fratelli di mio padre e non ci amava: per lei eravamo dei demoni miscredenti, ma le solide mura del cascinale dove vivevamo insieme ad altre famiglie le garbavano più delle macerie del suo appartamentino milanese.
Le discussioni con mia madre erano all’ordine del giorno.
«Tutti quelli che conosco rubano!»*
«Ma rubare è un peccato contro Dio.»
«E far morire di fame e di freddo la povera gente no?»
«Sei una senza Dio!»
«Tientelo il tuo dio e io mi tengo il mio Lenìn!»
Papà si teneva alla larga dalle loro discussioni, io e le mie sorelle tifavamo per mamma.
Fu all’inizio di febbraio del 1944 che ebbi un’idea. Anzi: L’IDEA.
Complice il freddo che ci ghiacciava anche i pensieri, la concepii di notte, nel gelo del letto che condividevo con la più piccola delle mie sorelle, la studiai a lungo, poi presi il coraggio a due mani e mi decisi a parlarne in famiglia.
Malgrado gli ideali comunisti, il principio di democrazia era di là da venire e in casa comandava mia madre facendo credere a mio padre il contrario.
Noi figlie eravamo giudicate troppo piccole per mettere il naso nelle faccende dei grandi.
Fino a quella sera.
Discutemmo L’IDEA a lungo, valutando i pro e i contro, poi coinvolgemmo nel piano le famiglie vicine, infine decidemmo il gran giorno, fra uno strale e un pater di zia Erminia.
Ogni giovedì pomeriggio, alle 14,25, un treno merci proveniente da Genova transitava per la stazione del paese, diretto a Milano. La locomotiva trainava dagli otto ai dieci vagoni scoperti e in ogni vagone c’erano tonnellate di carbone.
Anche quel pomeriggio, alle 14,22, come sempre il treno iniziò a rallentare la sua corsa in prossimità della stazione di Bressana; alle 14,25, all’altezza della banchina, il mezzo era al minimo della velocità e ci sarebbe rimasto per circa 700 metri. Poi, passata la curva, avrebbe ripreso a marciare a pieno ritmo verso il capoluogo.
Il merci entrò in stazione e la superò; non appena il capotreno si voltò per rientrare nel suo ufficio, dalla banchina io e le mie sorelle iniziammo a sventolare dei fazzoletti rossi e dall’argine una banda di ragazzini dagli 11 ai 14 anni si gettò all’assalto del treno. Secchi come ragnetti e svelti come gatti affamati, i ragazzini si arrampicarono sull’ultimo vagone e presero a buttar giù carbone a piene mani. Giovanni, detto il macaco per la sua curiosa somiglianza con una scimmietta, si era attrezzato con un secchio di legno e grazie a quello faceva cascare sull’argine una vera e propria grandinata nera.
Dai fossi e dai cespugli si mossero mamme, nonni e bambini che iniziarono a raccattare tutto quello che potevano, riempiendo sporte, grembiuli e una carriola.
Sembravano un esercito di cavallette e in breve l’argine fu ripulito da ogni pezzo di carbone.
Appena prima che il treno raggiungesse la curva e aumentasse quindi la velocità, i ragazzi saltarono giù dal vagone e si unirono a noi.
Poi, per vie traverse, il piccolo plotone di straccioni ricoperti di polvere nera da capo a piedi, si mosse per raggiungere la cascina dove abitavamo e dove avremmo diviso il bottino.
Davanti a me, zia Erminia procedeva spedita, tenendo fra le mani le cocche del grembiule, colmo di carbone all’inverosimile.
Muoveva le labbra in maniera frenetica e biascicava una litania che somigliava a un Pater Noster.
La guardai di sottecchi, ma non aprii bocca.
«Prego per la salvezza delle vostre anime.» fu la sua risposta a una domanda che nemmeno le avevo fatto.
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Il racconto è ispirato a vere storie di famiglia.
*cit. dal racconto La guerra di Piera di Antonella Zanca (Niente per cui uccidere, Calibano Editore).
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