L’aggiustatutto

«Presidente, io non so come…»
«Sì, ho saputo. Lo ha fatto di nuovo. Ho già letto i quotidiani. Lui dov’è adesso?»
«È nei suoi alloggi, ha fatto colazione e sta… meditando, credo.»
«Ho capito.»
«Presidente, io davvero non so cosa dire, ma credo che dovrebbe… che lei Presidente dovrebbe, magari, parlare con Lui. Stavolta la situazione sembra grave.»
«È sempre grave. Ogni volta.»
Il Presidente aveva l’aria stanca, non ancora rassegnata ma prossima a un’ira che non poteva permettersi. Restò fermo per qualche minuto davanti alla finestra che dava sul giardino e immaginò sé stesso intento a coltivare gerani, un’immagine che lo calmava sempre. Pensava spesso che forse, un giorno, si sarebbe potuto ritirare e fare solo questo, occuparsi di gerani, era la sua fantasia confortante. Mosse leggermente le labbra, le parole fuoriuscivano come il sibilo di una ruota bucata, lo fece meccanicamente mentre i
pensieri vagavano altrove. Il lieve tremore delle mani cessò e lui si sentì nuovamente padrone dei suoi sensi. Fece il segno della croce, si aggiustò gli occhiali e passò le mani sulle guance, per assicurarsi di
non aver dimenticato di radersi, sperando di avere ancora un aspetto ordinato nonostante la difficoltà del momento.
Fu accompagnato nella residenza del Sovrano e chiese di essere annunciato.
«La sta aspettando», annunciò un inserviente.
«Dove? In biblioteca?»
«Nei suoi alloggi.»
«Capisco.» Vargas trattenne l’istinto di alzare gli occhi al cielo, puerile abitudine che era convinto di aver abbandonato da almeno settant’anni ma che all’improvviso si ripresentava in quella situazione difficile. Va bene, affondiamo la lingua in questo amaro calice, pensò.
Il Presidente salì su una scala monumentale che conosceva fin troppo bene. Mentre raggiungeva le stanze private, ragionava su quanto avrebbe desiderato essere accolto in maniera più dignitosa,
elegante, come si addiceva al suo ruolo, ma sapeva anche che quell’invito a raggiungere gli alloggi non rappresentava un insulto bensì una manifestazione di simpatia e amicizia. Uno scalino dopo l’altro, il dolore alla schiena che mordeva a ogni passo, le mani rigide sulla ringhiera gelata, Vargas cercava di organizzare un discorso ma ogni parola che si formava nella sua mente andava a sbattere contro la probabile argomentazione che Egli avrebbe opposto. Lo conosceva troppo bene.
Raggiunse la stanza più privata del palazzo, la camera da letto. Si schiarì la voce con un colpo di tosse e bussò.
«Entra, entra, ti stavo aspettando.»
Il Presidente entrò nella grande stanza, illuminata dal sole che irrompeva dalla finestra e andava a cozzare contro ghirigori d’oro e preziose decorazioni in rilievo. Egli lo attendeva di spalle e armeggiava con qualcosa. Voltò leggermente la testa verso il nuovo arrivato che era rimasto immobile, in silenzio, e lanciò uno sguardo interrogativo «Beh? Non saluti? Amico mio, ti fai il sangue amaro a prima mattina», disse continuando a dargli le spalle.
«Posso chiederti intanto cosa stai facendo?»
Si girò con aria innocente, come un bambino pizzicato a fare una marachella, le sopracciglia inarcate e la bocca a formare un ovale di stupore. Aveva in mano uno strano aggeggio a forma di molla che
passava da una mano all’altra cercando di non farlo cadere, «è bello vero? Me lo ha messo in mano un bambino ieri e ancora non riesco a fargli fare dieci passaggi senza che mi cada a terra. Diabolico.»
«Possiamo parlare?»
«Ma certo, come sempre.»
«Intendo senza…» Vargas disegnò un cerchio con due dita in direzione del giocattolo.
«Oh, certo. Dimmi pure» rispose allegramente l’amico, appoggiando l’oggetto su una pesante scrivania.
«Perché continui a usare quelle parole? Ci siamo già passati, ogni volta si scatena una bufera.»
«Perché, ovviamente, sono un forestiero, non conosco bene la lingua, no?»
«Ti prego, non giocare con me, la situazione è pesante, mi stai mettendo in difficoltà. Non possiamo andare a dire al mondo che non conosci la lingua, sono vent’anni che vivi qui.»
«Per me il finocchio è una verdura deliziosa» lo stuzzicò il Sovrano recuperando il giocattolo sopra la scrivania.
«Lo hai usato per riferirti a una persona.»
«Lo so che esistono altre parole più consone ma la sera prima avevo visto un film divertente sul 6 e mi è rimasta in mente quella, ecco la verità, giurin giurella», rispose baciando due indici appoggiati alle
labbra a formare una croce.
Vargas dovette nuovamente lottare contro l’istinto di alzare gli occhi al cielo, due volte in un solo giorno.
Il Presidente riprese a parlare con calma «quell’altra cosa, sulle donne, non potevi evitare l’argomento? Adesso tutti pensano che sei un vecchio sciovinista misogino.»
«E basta con queste donne che vogliono far tutto!» alzò la voce il Sovrano, la molla gli cadde dalle mani per l’agitazione, «e allora facciamo così, diamo loro tutto ciò che vogliono, svuotiamo le case dalle mamme, dalle brave mogli e permettiamo loro di fare il Papa, se vogliono, perché no? A te andrebbe bene?»
Il Presidente restò calmo, immobile «lo sai che non ti sto dicendo questo, ma non puoi… dovresti evitare di toccare certi argomenti.»
«Me lo chiedono», rispose lanciando un’occhiata di sguincio.
«E tu smettila di rispondere alle provocazioni. È stato creato un account tutto per te sui vari social…»
«E non li posso usare perché gli accessi ce li ha il Segretario di Stato, cosa vuoi che faccia?» lo interruppe rialzando la voce.
«Vorrei che tu ti facessi riprendere in pose istituzionali, come fanno tutti i regnanti e i politici del mondo, e facessi le tue esternazioni in maniera ufficiale e giusta per il tuo ruolo. Nessun giornalista e nessuna domanda a trabocchetto.»
«Mi riprendete, tagliate quello che non vi piace, cambiate le mie parole come volete voi e poi pubblicate. Non mi va. Voglio essere padrone dei miei pensieri, Santo…» bloccò un’imprecazione portandosi un pugno alle labbra «insomma, lasciatemi in pace». Il Sovrano esprimeva un’ira che ormai troppo spesso esplodeva in pubblico e anche questo era un problema.
Riprese a manipolare il suo giocattolo e si calmò in pochi minuti, accennando un sorriso beffardo. La calma dopo la marachella.
Vargas si avvicinò all’amico e gli fece segno di porgergli l’aggeggio, lo prese fra le mani e cercò di capirne l’utilità, poi, mostrò un timido sorriso, un tentativo di distensione, e riprese a parlare, quasi distrattamente «è la stampa, quelli ti mettono in difficoltà, se ne approfittano perché sei troppo disponibile, siamo d’accordo su questo?»
«È la stampa, sì. Però io non dico cose che non penso e non voglio essere censurato. Siamo d’accordo su questo?» lo imitò senza allegria.
«Non vuoi riconsiderare le tue posizioni ufficiali su un’eventuale apertura al sacerdozio femminile, che naturalmente non è una cosa nelle tue possibilità. Ma tu magari hai una tua inclinazione personale, un’opinione che potrebbe essere importante per molte persone, sai, sapere che sei dalla loro parte anche se non…»
«Dovrei dire una cosa che non penso perché tanto, all’atto pratico non ha importanza? Questo mi chiedi?»
«Ti chiedo di non mettere in difficoltà la Chiesa, di non crearti nemici tra chi dovrebbe sentirsi rappresentato da te, di smettere di dire tutto quello che ti passa per la testa solo perché è ciò che pensi.
Voglio che tu cominci a ragionare da leader, una bandiera che la gente ha bisogno di seguire.»
Il Sovrano guardò il suo Presidente con occhi incendiari e urlò «Io non sono un leader, sono un pastore e il mio gregge lo prendo a calci nel culo se pensa di potersi rivoltare contro di me.»
«Ebbene, vedo che stai ampliando il tuo vocabolario, evidentemente sul 6 trovi programmi istruttivi. E sia. Il mio compito è quello di proteggere i tuoi affari, di amministrare il tuo regno.»
«Ma noi siamo anche amici, non è più così, forse?»
«Naturalmente.»
Il Presidente si incamminò verso il Sovrano immobile, con le ultime scintille che gli si consumavano negli occhi e il fiato corto per l’eccitazione. Si abbracciarono con entusiasmo fanciullesco.
«Adesso ti lascio alle tue… occupazioni.» disse Vargas tenendogli la mano in segno di affetto.
«Resta, tra poco verrà servito il thè. È sempre stato un momento speciale per noi.»
«Lo so, ma oggi non posso, devo sistemare questo piccolo fastidio.
Sta tranquillo, aggiusterò tutto. Come sempre.»
Due ore dopo, un inserviente uscì di corsa dagli alloggi privati del Papa. Era andato a ritirare la tazza del thè e lo aveva trovato privo di vita, accasciato sulla scrivania con una stana molla in mano e l’aspetto sereno, quasi divertito.
Due settimane dopo, il Conclave elesse il nuovo Sovrano dello Stato del Vaticano, ufficiosamente su indicazione del Presidente del Governatorato Vargas.
©Ale Ortica

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