L’attesa
Sono come quelli nubi là in fondo, una sostanza mobile, fluttuante, fatta di acqua e vento. Se potessi uscire da questa finestra, attraversare il vetro senza tagliarmi, come un soffio d’aria ed essere fuori, sopra la città. Ma ogni movimento del corpo comporta gravità e sangue che scorre, muscoli che si tendono, fatica. Sono così stanca di fare fatica, così stanca da sentire persino il peso delle nuvole, del cielo che mi grava sulle spalle, stanca di questa città di cui non ricordo neanche il nome e che è solo tetti e ciminiere. Una città come le altre in cui sosto qualche ora per poi ripartire e venire a cercarti.
2 maggio 1994. Stephen bacia sua madre sulla guancia, afferra lo zaino appoggiato accanto al muro e se lo carica sulle spalla con un solo movimento secco, coordinato ed elegante come lo è la sua figura, il suo viso. Tutto sua madre, dicono sempre. Tutto sua madre. Tutto di sua madre. Mette una mano sulla maniglia della porta, poi si volta con un sorriso e fa due passi verso la donna in vestaglia e i capelli in disordine, la faccia ancora bagnata di sonno che gli sorride a sua volta.
«Ciao mamma. Ci vediamo dopo.»
«Ciao amore. Buona scuola.»
Il ragazzo si volta e questa volta apre la porta ed esce.
2 maggio 1994. Quella donna bagnata di sonno sono io che guarda suo figlio, il suo unico figlio, uscire di casa per andare a scuola. Un gesto semplice, un’abitudine perpetuata fin da quando aveva compiuto otto anni e andava a scuola da solo perché era così vicina a casa e mamma, dai, fammi andare da solo.
2 maggio 1994. Stephen di anni ne ha sedici quando esce per l’ultima volta dalla porta di casa e dalla mia vita.
Nessuno lo ha più visto. Anni e anni a cercarlo. I poliziotti, all’inizio solleciti, attivi sul caso, sempre più rassegnati mano a mano che sono trascorsi gli anni.
Anni che si sono sciolti l’uno nell’altro senza che io sia stata capace di bloccare un fotogramma. L’unico che ho nella mente, indelebile, è Stephen che si carica lo zaino sulle spalle, sta per uscire, si ferma, si volta, mi sorride, mi saluta, si rivolta ed esce. Il mio pensiero è incastrato fra i suoi denti, nel suo sorriso, tra i suoi capelli, nella mano che stringe la maniglia e la abbassa per aprire la porta e uscire.
2 maggio 1994, 3 marzo 2014. Sono ancora in viaggio e ancora ti cerco. Persino dentro quelle nuvole e non mi fermerò mai.
©Barbara Garlaschelli, 2015