La Défense di Parigi
È una Parigi che non ti aspetti quella che ti accoglie dopo una corsa di metropolitana, fuori dai circuiti del turismo tradizionale. Lasciati alle spalle gli ori barocchi, gli echi impressionisti e gli sfarzi imperiali alla Haussmann della Parigi che tutti conosciamo, la Défense ti porta in un futuro imminente, fatto di geometrie straordinarie e avveniristiche.
A ovest della città, la Défense è il più grande quartiere d’affari d’Europa: grattacieli, uffici, centri commerciali sono nati a partire dagli anni ’50 del secolo scorso e proprio qui, con l’Arc de la Défense, trova compimento l’ Axe historique, ovvero quella linea di monumenti che parte dal centro della città attraverso gli Champs Élysées e l’Arco di Trionfo, a cui quello della Défense rende omaggio.
Camminare attraverso la Défense in una fredda mattinata di gennaio è un’esperienza insolita: nessun turista a calpestare il nevischio caduto durante la notte e, qui e là, solo passanti frettolosi, dirigenti di corsa, impiegati più impegnati a raggiungere i posti di lavoro che non a guardarsi attorno e stupirsi di queste architetture venute dal futuro.
Il foglio stampato da Wikipedia racconta di quattro grandi settori, 310.000 metri quadrati di lastricato e marciapiedi, 110.000 metri quadrati di verde, 3.000.000 metri quadrati di uffici, 150.000 impiegati, 30.000 residenti, 1.500 imprese, 60 monumenti e sculture moderni, ma mi dimentico alla svelta del foglietto accartocciato nella tasca destra del cappotto e preferisco vagare col naso per aria, limitandomi a scattare foto.
È fredda e livida, questa Parigi per me inedita, ma non meno affascinante di quella che conosco molto bene, che corre lungo le Senna, sale fino a Montmartre e ridiscende fino al Quartiere Latino o al Marais.
Più tardi, al ristorante giapponese dove ci fermiamo per riposare, riscaldarci e pranzare, rivedo le foto che ho scattato. Nessuna di queste mi soddisfa pienamente: mi sembrano algide ed estranianti.
Mi sembra che nessuno di questi scatti invogli ad una visita.
Allora, forse, ho davvero colto l’essenza di questo posto.
©Viviana Gabrini, 2017