La ragazza brutta

 

La spalla era ormai guarita, però la fiacca era rimasta su tutto il braccio. Talvolta gli scivolava di mano il bicchiere e il gomito sembrava pesante. Così aveva preso accordi con il giovane dottore che aveva aperto lo studio proprio nella stanza accanto a quella del medico di famiglia, in paese.
«Sarà una riabilitazione impegnativa, servirà tempo» si era sentito dire, e non ne aveva fatto un cruccio. Era sempre stato un tipo metodico, aggiungere un’abitudine non avrebbe cambiato niente.
Aveva deciso di camminare al fresco fragile delle prime ore di quel caldo venerdì estivo. Si era convinto che muovere le gambe per la salita del Vernone, fino all’ambulatorio del fisioterapista, non avrebbe fatto altro che favorire una completa guarigione.
Così Emilio De Seneca, architetto quarantacinquenne della frazione a valle, salì silenzioso lungo la sterrata per il paese, all’ombra sempre più calda dei pini marittimi ai bordi della strada.
Si era svegliato presto, come gli capitava sempre più spesso dal giorno dell’incidente. Aveva aspettato seduto in cucina che il sole si alzasse e che i cani del vicino iniziassero ad abbaiare contro i primi passanti. Si era concesso qualche pagina ingiallita di una vecchia edizione di Anni senza fine di Clifford D. Simak, in cui l’autore aveva immaginato un mondo dominato da cani dall’intelligenza superiore e aveva sorriso, considerando i latrati dei due meticci come i primi vagiti di una rivolta che avrebbe estinto l’uomo.
Dopo, indossata una camicia leggera con le maniche girate all’avambraccio, pantaloni di lino e scarpe di tela, aveva chiuso la porta con l’attenzione di non svegliare la moglie ancora a letto e aveva imboccato la strada.
La salita del Vernone deviava a un certo punto stretta da due file laterali di vecchi edifici in mattoni e calce, con le finestre piccole. Queste, d’inverno, lasciavano filtrare il chiarore dei fuochi, come a testimoniare che la vita fosse capace di bruciare senza avvampare di elettrica prepotenza borghese, ed Emilio, quando passava da quelle parti, rimaneva rapito dai bagliori fino a quando il freddo non diventava insopportabile.
Quel mattino d’estate, invece, sentiva già le prime gocce di sudore scivolargli lungo il collo e dietro la nuca. Tuttavia non riuscì a evitare che il suo sguardo si avventasse sulle vite degli altri, godendo del grande portone in legno aperto al pianterreno del primo edificio, sulla sinistra. Dentro, una stanza che non si poteva definire salone, né camera, tante erano le cianfrusaglie disposte alla rinfusa su vecchie sedie sfondate, su un tavolo tondo, sul pavimento impolverato. Ognuno di questi oggetti, cumuli di panni, file di piatti e di bicchieri, fascine di legna per quei fuochi invernali, veniva cerchiato dalla luce che filtrava da una seconda apertura contornata da tende leggere, sul lato opposto del portone. Oltre, un cortile interno brillante di verde.
Emilio si sentì per un attimo in colpa. Proseguì affamato più di prima di quel disordine rubato. Raggiunse l’ambulatorio consapevole dell’urgenza di tornare alla sua quotidianità. Eppure aspettò insieme ad altre due signore anziane che dedusse presto fossero lì per il medico di famiglia. Si pentì subito di non aver portato con sé il romanzo di Simak.
«Sei passata davanti casa di Tonietta?»  
«No, sono venuta su con Alfredo che intanto fa spesa…»
«Mamma mia, che roba…»
«È un macello, vero?»
«Ma tanto una ragazza in quel modo deve sta’ in istituto, da qualche parte, non può vivere da sola. Oppure trova marito…»
«E quando lo trova, il marito. È brutta un bel po’, manco uno cieco…»
«Almeno prima c’era la madre.»
«Che poi, pure quella proprio tutta salva non lo era nemmeno lei…»
Che differenza c’era, si chiese, tra il loro parlare e l’abbaiare dei cani del suo vicino? Che forse, avessero davvero desiderato conquistare il mondo, i cani avrebbero avuto qualche possibilità.
Così trascorsero dieci minuti di attesa e un’ora di fisioterapia. Dopo Emilio tornò verso casa.
Il sole era alto, decise di rallentare i passi. Per non sudare, disse tra sé e sé. In realtà, e lo sapeva, voleva che quel passaggio durasse il più a lungo possibile.
Quasi si fermò qualche metro prima e si guardò intorno: la via era deserta.
Allora si affrettò all’ingresso e scrutò dentro, sicuro di una geometria degli spazi che aveva ormai fatto sua. Sulla soglia, colse subito il movimento delle tende sul lato opposto. Venne avvolto dall’aria calda e dal profumo di saponetta e di terra smossa.
Poi la vide, fuori, nel cortile.
Era nuda. Seduta sui bordi di una bacinella di plastica, voltata di spalle.
I capelli fuliggine, lunghi e bagnati, le scivolavano lungo la schiena, fino a lambirle la linea scura che si apriva tra le natiche piene e carnose.
Emilio trattenne il fiato, scandendo con i battiti sempre più veloci del cuore i movimenti ritmati della ragazza che con una mano sfregava il sapone e con l’altra tirava acqua tra le gambe.
Quando all’improvviso si voltò verso di lui, Emilio lasciò uscire l’aria dai polmoni senza avere la forza di un nuovo respiro, rapito da quella fronte gonfia e dagli occhi sottili, dagli zigomi arrossati e dal naso adunco, dalle labbra storte verso il basso, negazione di ogni sorriso.
Scappò a passo svelto lungo la discesa. Raggiunse casa. I cani abbaiarono quando lo videro.
Durante la giornata cercò senza successo di dividere il piano terra di un vecchio rudere in due mini appartamenti, scarabocchiando con la matita sulla carta da lucido sopra una planimetria catastale.
Saltò persino il pranzo, e la cena gli fu imposta dalla moglie, che aveva fritto il pesce.
Durante la notte, Emilio sentì tornare il dolore alla spalla. Così si girò tra le lenzuola, madido di sudore. Infine trovò conforto a pancia sotto, spingendo contro il materasso. Nell’oscurità dei sogni ritrovò la linea nera e bagnata tra le natiche della ragazza brutta. Dovette spostare un po’ il fianco per consentire al suo sesso di trovare spazio.
Trascorse notti di febbre e di incontrollabile furia, il dolore alla spalla sempre in lotta con la fame del ventre. Spesso si svegliò presto uscendo nella notte, con l’elastico delle mutande incapace di trattenere l’erezione. Aspettò il venerdì successivo senza pace. Non sfogliò più le pagine di Simak. I cani, per lui, non erano mai esistiti.
Infine tornò a camminare, evitando i leggeri pantaloni di lino. Al solo pensiero del portone aperto, cresceva in lui il desiderio e si mescolava al dolore alla spalla.
Si fermò all’andata e come la prima volta il portone era aperto e la stanza vuota. Fu tentato di entrare e di cercarla, e solo in un secondo momento si convinse della propria follia: dopotutto le aveva già rubato quell’attimo di intimità, cos’altro pretendeva? Così proseguì dal dottore. La fisioterapia fu assai dolorosa.
Quasi di corsa Emilio si affrettò sulla strada del ritorno, per poi rimanere fermo e dritto davanti al portone aperto. La ragazza brutta era lì, nuda, in piedi al centro della stanza, tra i cumuli di panni, di piatti e di bicchieri, di fascine e di sedie sfondate. I capelli fuliggine erano asciutti, gonfi sopra le spalle, così strette rispetto ai fianchi. I seni erano grandi e i capezzoli dormivano nella penombra. L’addome era giovane e prominente, e il ventre era spuma nera fino ai lati e sopra, all’ombelico. Dietro di lei, la luce mossa che scivolava dal cortile.
Emilio la guardò negli occhi, senza trovare le parole giuste. Rimase in silenzio. Anche mentre lei raggiungeva l’angolo opposto della stanza da dove partiva una scala per il piano di sopra. I talloni erano neri, come d’ombra era la linea tra le natiche mentre saliva i gradini.
Tornato solo in quella casa vecchia, Emilio ne percepì un’immota disperazione d’assenza, come se ogni granello di polvere avesse un senso solo in presenza di lei.
M
entre tornava verso casa, alzò gli occhi alle finestre piccole che d’inverno tradivano le fiamme. Già sapeva che sarebbero bruciate tutte nel suo ventre, gabbia di mille inverni chiusi in un’estate, fino al venerdì successivo.
Furono giorni di carte stracciate e punte di matita a bucare il foglio, di schizzi che raffiguravano la stanza, linee che poi venivano coperte da altre linee: Emilio cercava la fuliggine nel tratto ruvido della grafite durante il giorno, nei morsi alle lenzuola durante le calde notti bagnate.
Il venerdì successivo trovò il portone chiuso, sia prima che dopo la fisioterapia.
E così quello dopo ancora.
Solo le notti febbricitanti di desiderio e il dolore alla spalla rimasero tali, anzi, aumentarono di intensità, se possibile.
Arrivarono le visite specialistiche accompagnato dalla moglie; arrivarono gli antidolorifici capaci di annebbiare la lucidità e la creatività; smise di progettare concedendosi pratiche semplici e banali.
Solo, il venerdì, camminava verso il paese, fermandosi prima e dopo la fisioterapia di fronte al portone chiuso.
Trascorsero i giorni e le settimane. Poi i mesi. Infine gli anni.
Quando ormai aveva smesso di muovere il braccio e di dormire, un venerdì coperto di neve si avviò come sempre verso il paese, a piedi. Percorse la salita del Vernone, fino alla svolta tra le case di mattoni e calce, si fermò davanti al portone e alla fine lo ritrovò aperto. Si affacciò.
Al centro della stanza c’era una donna nuda, il peso degli anni aveva scritto pagine dolorose sulla pelle, sul collo, sui seni. La fuliggine era diventata polvere.
Emilio entrò. Si avvicinò e nel grigiore dell’inverno riconobbe la fronte gonfia e gli occhi sottili, gli zigomi arrossati e il naso adunco, le labbra storte verso il basso. Nemmeno si rese conto di lasciarle una carezza sul volto con la mano che non muoveva da tempo.
Dopo, colei che un tempo era stata la ragazza brutta, si diresse verso la scala.
Emilio la seguì. Prima, però, con la punta del piede chiuse il portone.
Nel buio salirono i gradini mentre fuori la neve cadeva.
E nella tempesta di bianco che non sembrava affievolirsi, da una delle piccole finestre brillò la luce di un fuoco. A vederla da fuori, chiunque avrebbe detto che lì ci fosse la vita.

© Alessandro Morbidelli, 2021
© immagine di copertina The chariot of Venus, Willy Jaeckel (Germany, 1888-1944)

Alessandro Morbidelli

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