La Lezione di Marketing del Piccolo Capitano

In una città che si chiama Torino
camminava smarrito un bambino piccino.
Aveva la pelle morbida e scura
e scarpe un po’ larghe, appena fuori misura.
Non andava da solo tra le bancarelle,
procedeva con altre sue sette sorelle.
La prima era alta e molto elegante, da grande voleva sposare un gigante.
Un’altra era piccola come un pulcino e teneva sempre qualcuno vicino.
Le altre erano cinque, tutte alte normali, soltanto gemelle
(perciò tutte uguali).
La mamma le aveva chiamate Teresa,
una vispa,
una meno,
una allegra,
una seria,
una molto distesa.

E dunque per strada i bambini eran otto, e lui, il capitano, volle andare al Lingotto.
«Perché» disse lesto «stare qui a lesinare e chiedere senza mai riuscire a ottenere?
I tipi là dentro non saran certo avari: faremo alla svelta un bel po’ di denari!»

Ma la alta e la piccola tra le sorelle non volevan sentire di queste storielle,
e le cinque Terese
– eran cinque, si sa –
di per sé non gradivano le novità.
«Andrò io da solo» disse alzando la mano «è questo il destino di ogni buon capitano. »
Il suo vero nome era invece Giuseppe.
Suo papà da bambino abitava le steppe e veniva da un posto davvero lontano
(nella lingua di qui credo sia Kurdistano).
La sua mamma ove fosse nessuno lo sa, ne chiedeva ogni tanto notizie al papà.
Quello allora una lacrima asciugava e Giuseppe, in silenzio, stretto se lo abbracciava.
Sarà stato perché quel paese paterno qualche volta narrato gli era parso fatato,
che così a ripensarlo, oltre il mare lontano, a lui venne da dire:
«Io farò il capitano!»
Da quel giorno pertanto “Giuseppe” sparì e restò quel nomignolo, che poi gli servì.
Non mi piacciono i ricchi, e la guerra nemmeno, il piccino pensava tendendo la mano
io sarò capitano ed andrò a visitare ogni luogo lontano
ma la nave che un giorno io vorrò comandare non sarà per combattere né per riposare.
Sarà invece, io voglio, un gran bel mercantile, che ogni cosa del mondo potrà ben contenere:
animali, piastrelle, libri di ogni colore, poi articoli vari … anche un treno a vapore!
E così, camminando – già pioveva a dirotto – capitano Giuseppe entrò dentro al Lingotto.
Trovò sotto ai suoi piedi, con grande stupore, un fantastico nastro: era un trasportatore;
e più in là, ma di un po’, cosa ancora più bella,
c’era lunga, lunghissima, una gran passerella.
Poi là dentro era pieno di gente elegante. Si sentì come un cecio di fronte a un gigante.
E dunque, prima di lavorare, decise di starsene un poco a guardare.
Vide cose meravigliose:
bambini pulitissimi
telefoni nuovissimi
vestiti costosissimi
gelati delicati dai gusti variegati
e scarpe con i tacchi con cui giocare a scacchi
e poi tanti gioielli che brillavan d’oro belli.
Poi, in un angolo, messo in disparte, trovò un giornalino con figure di Marte.
Non era di nessuno, guardò di qua e di là, perciò lo prese in mano con gran curiosità.
Dentro c’erano buffi mostri, c’erano mostri strani
parevano per certo politici italiani,
quelli che qualche volta, dalla televisione, giungevano fin dentro
l’aspetto della stazione,
dove seduto in terra insieme alle sue sorelle, il capitano stava
a rimirar le stelle (mica quelle del cielo poteva veder là, solo quattro stelline della pubblicità).
Quelli lì tutti insieme, squamosi e alquanto strani,
gridavano dal video «L’Italia agli Italiani!»
Ecco a chi somigliavano i mostri dei fumetti,
che infatti si pappavano un sacco di poveretti.
Il capitano rise, rise del suo tesoro,
decise quindi impavido di mettersi al lavoro.
Con occhio esperto e vispo girava tra i clienti:
una mamma, una nonna e tre o quattro studenti.
Nel mezzo, poi, a un tavolo, anche due fidanzati ma a quelli niente chiese, eran già imbarazzati.
Pensò: li lascio stare, questi non sono buoni a regalarmi soldoni.
«Mamma» chiese pietoso a una giovane donna, facendosi a lei vicino,
«avresti una moneta? Sono anche io un bambino.»
La mamma non rispose, finse di non sentire, frugò nella sua borsa
(lui cominciò a sperare) ma solo per tirare fuori il nuovo cellulare.
Giuseppe il capitano restò fermo in attesa,
dritto, quasi impettito, dentro la sua divisa:
calzoni verdolini
felpa senza colore
scarpe un poco sformate e tutte inzaccherate.
Ora mi dà qualcosa pensava speranzoso
ma lei non lo guardò.
Riprese a camminare parlando al cellulare,
mentre nel passeggino piangeva il suo bambino.
Che mi importa di questa? pensò il capitano ho una nonna qui dietro, a portata di mano.
«Nonna, che hai un soldino? Sono pur io un bambino.»
ripeté il ritornello, che sentiva sicuro
(perciò non lo cambiava, col cielo chiaro o scuro).
«Che dici, disgraziato?» scattò la nonna arzilla, tanto velocemente che a lui parve un’anguilla.
«Io che sono maestra, ti dico questo solo: tu devi andare a scuola, non certo qui al lavoro! Tuo dovere è solo, soltanto lo studiare, perciò avanti, subito a scuola, di corsa. Pedalare!»
Replicò il capitano: «Ma io devo pur mangiare!!»
«Mangiare, mangiare … tutti uguali voi ragazzini, pensate solamente a dettagli cretini!
Tu devi studiare, poi potrai lavorare, e infine anche mangiare! Lo vedrai, non ho torto …»,
provò a finire lei,
però lui tagliò corto: «Ma così sarò morto!»
Ritrasse la mano in fretta, capì che mai alcun soldino sarebbe sortito
da quella borsetta.
Perciò lasciò la vecchia a parlare da sola
sul perché il tempo passa, anzi, spesso, si invola.
Tirò un gran sospiro ma gli restò tra i denti,
si mosse così verso quei quattro studenti,
che gli parvero subito ben promettenti.
Questi son comunisti si disse perché
han stampata sul petto la faccia del Che.
Era quindi sicuro di una bella moneta.
Lo sapeva il suo fiuto:
da un compagno giammai
si riceve un rifiuto.
Ma quand’era per dire «Ciao ragazzi, che fate? Ce l’avrete di certo qualche euro per me, se portate sul petto la faccia del Che.»
Guardò meglio le maglie: eran tutte firmate.
Non poteva saperlo, era tutta apparenza: non comunismo ma soltanto tendenza!
«Ma che vuole, il tamarro?» chiese una principessa «Forse un calcio al didietro!»
(nobile e pur poetessa)
E del resto anche i maschi non sembraron migliori: gliene dissero invero di tutti i colori.
Capitano Giuseppe, davvero confuso, si disperò piuttosto
e non seppe che pensare:
dentro al magro taschino non aveva un soldino
(e, suprema disdetta, perso avea il giornalino!)
Passò tra i tavolini. Non mendicava più.
Ma di colpo, che accadde? Che gli davano del tu:
«Scusa» disse il ragazzo e gli passò un soldo grande
mentre lei, la ragazza, prese a fargli domande:
Il dove
I
l come
Il quando
Sapere anche il suo nome
Sapere se stava bene
«Hai fatto colazione?»
Eccoli qui, i fidanzati
pensò sgranando gli occhioni
meno male
che a me non sembravano buoni!
Osservò il soldo grande,
gli pareva anche troppo,
diventò tutto rosso
forse per la sorpresa,
non sapeva che dire,
la mano ferma e tesa.
Guardò bene quei volti,
tranquilli e un po’ rossi,
quei due tipi eran buffi:
belli e anche un po’ strani.
Né giovani né vecchi: solo esseri umani

*

Quella sera al telefono, da molto lontano,
lui le chiese commosso, con tono un po’ strano:
«Starà bene? Che dici? Ti ricordi il bambino?
Quello oggi al Lingotto.
Sai… qui ora piove a dirotto.»
«Io so cose che tu, tu non puoi immaginare,
in quegli occhi ho guardato e lì dentro c’è il mare.
Non temere: sta bene», disse lei e rise piano
«Sono certa, da grande, che sarà un capitano.»
E Giuseppe sorride,
abbracciato al papà,
russan già le sorelle,
strette sotto alle stelle
della pubblicità.
Ride, sì, il Capitano
perché adesso lo sa
che nel mondo c’è odio
ma c’è pure bontà.
©Roberta Lepri, 2019

Le lacrime di Hitler è l’ultimo romanzo di Roberta Lepri ed è disponibile nelle librerie e su tutti i digital store da ottobre 2019.

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