La Elide si lascia andare contro lo schienale del divano con un sospiro che è stanchezza ed è rassegnazione. Ha la casa piena di gente e fra qualche ora sarà anche peggio ma lo sapeva che sarebbe successo.
Socchiude appena gli occhi e cerca di isolarsi ma non le riesce bene come al solito: c’è subito qualcuno che le tocca un gomito o le sfiora una spalla per chiederle come sta.
Il dottore borbotta qualcosa con la Renata, la vicina del secondo piano, ed entrambi lanciano occhiate verso di lei e verso l’altra stanza, dove c’è il Carlino.
Il Carlino è morto. Morto stecchito, riverso nel letto dove hanno dormito insieme negli ultimi sessant’anni.
“E pensa che proprio domani facevano sessant’anni di matrimonio, povera Elide”.
Senza voltarsi, la Elide sa che a dire quelle parole è la Bice, la vicina del terzo piano, quella col figlio mica tanto normale.
Il dottore le lancia un’altra occhiata e la Elide, che non ci sente più tanto bene, riesce comunque a cogliere uno stralcio di conversazione: “speriamo che regga perché sapesse quanti ne ho visti chiamarsi”.
Dice proprio chiamarsi, che dalle loro parti viene usato quando marito e moglie muoiono a breve distanza l’uno dall’altra. Si son chiamati, come se il sopravvissuto non potesse tollerare l’affronto della vita che gli ha tolto un pezzo di fegato o di cervello o di pancreas o di cuore.
Alla Elide viene da sorridere e nasconde la bocca con il fazzoletto; poi se lo passa sugli occhi, poi pulisce le lenti degli occhiali.
“Elide la vuoi una tazza di camomilla?” le chiede la Bice. La Elide risponde di sì con il capo e la Bice le porge una tazza di camomilla fumante: la Elide è golosa e normalmente ci metterebbe tre zollette di zucchero, ma forse la gola non si addice a una povera vedova che ha appena perso il marito e così, pudìca, ne mette una sola. Alla fettina di limone, però, non rinuncia.
“Avete chiamato la Giovanna?”
La Giovanna è la sua unica figliola, che da quando si è sposata, tanti anni prima, è andata a vivere in città.
Da dove la Elide vive e ha sempre vissuto fino al capoluogo son meno di trenta chilometri, ma è tutto un altro mondo. Dove vive la Elide è ancora campagna, le case di ringhiera hanno un grande cortile interno dove in estate e in primavera è bello sedersi fuggendo o inseguendo il sole e raccontarsi la vita, propria, e le morti, altrui. Dove vive la Elide si usa più il dialetto che non l’italiano, che è riservato alle conversazioni con i foresti. Dove vive la Elide, le persone, forse per sentirsi tali, hanno bisogno dell’articolo davanti al nome: nessuno si sognerebbe di chiamarla Elide o di dire Giovanna, Bice, Carlino.
“Povero Carlino, l’era propi un brav’om”: la Pierina ha emesso la sua sentenza.
“Un brav’ om, il Carlino a l’è un brav’ om”.
Glielo aveva detto anche sua madre, quando, appena diciannovenne e fresca sposa, era corsa a casa mostrandole i lividi sulla schiena e sulle spalle.
“Il Carlino l’è un brav’om e basta”. Per sua madre non c’era altro da dire.
Lavorava, non spendeva tutto all’osteria, si ubriacava solo il sabato sera.
“Però papà non ti ha mai picchiata”, aveva provato a difendersi la Elide.
Per tutta risposta, sua madre le aveva rifilato un manrovescio che le aveva gonfiato la guancia destra per un paio di settimane.
Se c’era una cosa in cui il Carlino era davvero bravo, pensa ora la Elide sorbendo le ultime gocce di camomilla, era proprio picchiare.
Una precisione scientifica nel colpirla dove nessuno poteva vedere i segni: la schiena, le spalle, le cosce, tutte quelle parti che rimanevano coperte dalle vesti anche nei mesi più caldi.
“Elide come si sente?”
La Elide riapre gli occhi, posa la chicchera oramai vuota e appunta lo sguardo sulla figura davanti a lei. Don Paolo, il pretino nuovo, tutto ossa e orecchie e naso e scarpe da tennis.
Nemmeno i preti sono più quelli di una volta, pensa la Elide sconsolata e ricorda don Renato, grande e grosso e col vocione tonante, che per dire messa non aveva mica bisogno del microfono e quando diceva l’omelia si faceva rosso in viso, coi cordoni del collo che parevano pronti ad esplodere.
La Elide è sempre stata una brava cristiana e si comunica tutte le domeniche alla messa delle 10.
Lei e la Bice e la Renata arrivano puntuali e una alla volta si inginocchiano davanti al confessionale.
Da una vita, gli stessi peccati.
Da una vita, la stessa assoluzione al modico prezzo di due pater e tre ave.
Ogni tanto, per variare, la Elide ci aggiunge di suo un credo e un atto di dolore, che male non fanno.
“Non era messo bene”, spiega il medico al parroco, “il povero Carlino non era messo affatto bene. L’età e le complicazioni polmonari, e la Elide, ah la Elide, che donna eccezionale, l’ha curato in casa fino all’ultimo, ha imparato anche a fargli le iniezioni”.
Il brusio sommesso si fa indistinto e la Elide socchiude gli occhi, estraniandosi dal mondo.
Si chiude in una stanza tutta sua e ferma, immobile, fa spazio nella testa e sceglie con cura i pensieri da lasciarci entrare.
È un gioco che ha imparato fin da bambina e che pratica ancora oggi che ha quasi 80 anni.
La mia povera Elide, sospirava sua madre quando la scopriva incantata a fissare gli angeli. E poi scuoteva la testa, rassegnata e preoccupata: chi l’avrebbe mai voluta una figlia che non c’era mai del tutto col cervello?
Anche il Carlino pensava che lei non fosse tanto a posto, che le mancasse qualche rotella, ma glielo diceva urlando e menando le mani.
Ora che è vecchia, però, la Elide può godersi il suo gioco in santa pace.
Se sei vecchio, il mondo dà per scontato che tu sia anche un po’ rimbambito e nessuno fa caso se ogni tanto ti fermi a giocare con i tuoi pensieri più belli.
“Vedrai che adesso arriva la Giovanna”, la rassicura la Bice.
La Elide sorride e fa di sì con la testa.
È contenta della Giovanna, è una brava figlia, giudiziosa, e poi ha studiato, ha fatto le scuole medie e poi le professionali ed ha trovato un buon impiego e un buon marito.
Quella figlia la Elide se l’è sudata: la Giovanna è arrivata dopo tre bambini nati morti e la levatrice le diceva “Elide lascia stare si vede che per te fare figli non è cosa”.
Ma la Elide è cocciuta come un mulo: lei un bambino lo vuole, vuole essere come sua madre, come sua nonna, come le sue sorelle e come le sue amiche.
E vuole dimostrare al Carlino che non è vero che non è buona a fare nulla, vuole dimostrargli che lei i figlioli li sa fare.
Il Carlino la picchia quasi tutti i giorni ma quando pensa che lei non riesce a fare figli diventa più cattivo e la picchia più forte. Smette quando lei rimane incinta e riprende quando partorisce un bambino morto.
La bambina invece non l’ha mai picchiata.
“Don Renato”, diceva la Elide al parroco in confessione, “se il Carlino alza un dito sulla bambina io lo uccido. Al mass, al mass”.
Don Renato la rimproverava, le gridava che certi pensieri erano peccato e le imponeva dieci pater e dieci avemaria.
“Ma picchiare la moglie non è peccato?” avrebbe voluto chiedergli la Elide, che però si vergognava di essere povera, di non saper parlare bene, di essere ignorante e alla fine teneva dubbi e domande per se stessa.
La Elide adesso è stanca: stanca del chiacchiericcio attorno, stanca di stare seduta sul divano, stanca del vai e vieni, stanca delle domande.
“Elide vada a coricarsi”, le dice il dottore, che sembra averle letto nel pensiero.
La Bice e la Renata la aiutano ad alzarsi e la accompagnano nella stanza che era stata della Giovanna fino al giorno del suo matrimonio.
La porta si chiude alle loro spalle e la Elide sospira: la schiena finalmente si rilassa e il corpo si abbandona contro il materasso che non è né troppo morbido né troppo duro.
Sono brave donne le sue amiche, pensa la Elide con il cuore gonfio di tenerezza e di gratitudine. Qualcuno più istruito di lei direbbe che sono la sua famiglia allargata, ma la Elide non sa che cosa significhi famiglia allargata.
Anche la Marisa le vuole bene: è un’infermiera in pensione e le ha insegnato a fare le iniezioni.
“Col Carlino in queste condizioni”, le aveva detto, “è meglio che impari”.
E la Elide ha imparato.
Il Carlino la ringraziava a bestemmie: da quando la malattia lo aveva costretto a letto non riusciva più a picchiarla e così distillava la forza delle mani nella violenza delle parole.
La Elide si gira nel letto e si accomoda meglio; adesso è più rilassata e sente la stanchezza che poco alla volta le percorre il corpo vecchio e sfatto.
Ripensa ai gesti di quella mattina e sorride: la punta della fialetta spezzata, lo stantuffo della siringa che pompa aria, la scelta della vena, l’ago che si infila in un punto preciso della vena.
Una volta, due volte, tre volte. Per essere sicura.
Aria. Aria al posto della medicina.
“Stai attenta a non lasciare aria nella siringa”, le ha detto la Marisa, “che t’al mass, al povero Carlino”.
Aria nella siringa, aria nelle vene del Carlino.
La Elide pensa che quando si sveglia deve aprire la finestra per fare entrare un po’ di aria fresca nella cameretta e poi si addormenta con un sorriso quieto.
©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)
© Foto Pixabay