La donna che avrei voluto essere si è alzata con calma dal tavolo. Ha racimolato le briciole di pane della cena con la punta delle dita e le ha chiuse dentro il pugno; le getterà ai passeri che arriveranno all’alba. La donna che avrei voluto essere ha spento la luce dopo aver baciato in fronte suo figlio addormentato. Gli ha tolto una ciocca di capelli dalla minuscola fronte fatta di vene a rigare, e fibra di pelle, e seta, e perle di sudore. Gli ha controllato il respiro pesante per non perderlo nella sua memoria mentre è scivolata via dalla stanza lasciandolo lì. Lì.
Lei, la donna che avrei voluto essere dico, è sicura che lo ritroverà, ma ha lasciato un dito di vino rosso in un calice di vetro e ha voglia di berlo, adesso. Così si è allontanata.
È sopravvissuta ai cambiamenti bruschi, alle parole infinite, stancanti. Alle notti in treno con la fronte appoggiata al finestrino. È sopravvissuta ai fantasmi che si servono di ogni strada per tornare, alle sfide che ha vinto barando, alle lacrime che non ha pianto quando era tempo per piangere. Ma oggi la donna che avrei voluto essere lo sa, sì, lo sa che ha vinto. Perché, ora che la vita ha mangiato tutti i miei tentativi di resistenza, ricordo solo quei pochi dettagli che mi hanno allontanato da lei. Come una lama, a tagliare. Li ricordo confusi eppure depurati da ogni traccia di inutilità, come succede con i volti delle persone che ti presentano per strada. Con lo stesso distacco superficiale e distratto.
E così, la donna che avrei voluto essere, ha smesso di lisciarsi i capelli per piacere di più: mi sta dimostrando che non devo lucidarmi le penne per sembrare più bella. Mi sta dimostrando che ho sempre sbagliato a vestire così, a parlare così. Conosce le regole ed è per questo che, la donna che avrei voluto essere, continuerà a giocare. Lei ha saputo tenersi un uomo perché sa che lui non è l’idea che ha di se stessa. E lui per questo la ama. Per questo e anche per tutti quei punti esclamativi che lei sa trattenere lì, in bilico, sulla punta della lingua. Accompagnati da quel sorriso che non so. Che non saprei. La ama perché la donna che avrei voluto essere ormai occupa troppo spazio, e ha occhi più chiari ogni giorno che passa. E perché sa replicare a memoria, come dentro la stesura di un copione, la vita che ho immaginato da bambina. Snocciolata dai polpastrelli come un rosario. Senza tregua.
Potrei imitarla, certo. Forse potrei spiarla giorni interi per provare, almeno, ad abbozzare i suoi gesti, se non i pensieri. Ma adesso è troppo tardi, sono stanca, e la lascio fare.
Sono cose che devono stare in disparte, queste. E che tracciano un segno inciso e diritto dalla carotide al cuore senza, tra l’altro, contare un granché. E quindi lascio; in pessimo stato lascio. D’altronde può capitare di sbagliarsi: avevo un riparo dal maltempo e l’ho confuso con la bellezza.
Adesso rimango un po’ a guardare l’autunno dalla finestra mentre il mio sangue che striscia giù, dal petto lungo le gambe, finalmente mi riscalda. I tagli del coltello hanno saputo riconoscere le strade che la donna che avrei voluto essere ha disegnato per me. I solchi, ecco, quelli no. Quelli sono attecchiti alla mia pelle durante gli anni a pranzi di caffellatte e tazze imbrattate nel lavello, e asciugamani fradici di acqua e lacrime, e telefoni muti, idioti. Televisori appannati, ciabatte e polvere attaccate assieme, cucchiaini incrostati di zucchero al caffè incollati ai fogli. Gli anni piegata in due sotto la doccia, con i singhiozzi che scuotono le vertebre e rimbalzano per fermarsi sulla gola come palline da golf da inghiottire. Né su. Né giù. Così, immobili a non ucciderti. Gli anni sonori e acuti come i cani che latrano, che digrignano i denti atterriti, mentre scavano – unghie e sangue – il pavimento che qualcuno ha scelto per loro.
E la donna che avrei voluto essere tutto questo lo sapeva. Lo sa. Che il figlio che non ho mai avuto ha un nome lei lo sa. Che gli occhi dell’uomo che mi ha rubato e fatto a pezzi li porto nei miei di occhi, anche questo lo sa. Ma fa finta di niente: d’altronde lei è, se possibile, ancora più bella di così. Ma non è mica un torneo; almeno non per lei.
E quindi se resto ma lei non sta in pena il risultato non vale.
Ma chi troverà il mio corpo, forse domani, e forse di mattina, chi troverà il mio corpo io lo so: si vanterà di non aver mai – mai – visto prima di allora quattro occhi sbarrati, identici, assorti a raccontare un’unica storia.
©Katia Colica