Alla Bella Elena la serranda si alzava puntuale ogni mattina alle 7 e si abbassava alle 8 di sera; una sola lunga pausa (fra le 2 e le 4 del pomeriggio in inverno, dalle 2 alle 5 in estate), quando la proprietaria chiudeva la cucina, rassettava e si riposava nella grande mansarda che sorgeva sopra al locale oppure all’ombra del salice che viveva nell’angolo più lontano dell’orto.
Fin dove arrivava la memoria della gente del posto, quel buco al termine della salita che portava al vecchio municipio, si era sempre chiamato La Bella Elena, anche se nessuno ricordava una Elena che ci avesse lavorato.
Locanda, poi osteria, poi bar tabacchi.
Un tentativo, fallito, di farne una sala giochi, progetto quanto mai improponibile in quel paese aggrappato tanto alle pendici del suo monte quanto alle sue origini contadine.
Un anno di chiusura e poi era arrivata la nipote di Ines: quieta, piccola, sorridente, la donna aveva comperato i muri e dopo qualche mese di lavori, aveva riaperto il locale, che non era bar e non era ristorante.
– La Bella Elena è la Bella Elena, tagliava corto la donna quando qualcuno chiedeva che genere di posto fosse.
Si regalano sorrisi, stava scritto alle spalle del bancone, proprio a fianco della macchina del caffè.
E di sorrisi, la donna era davvero prodiga con chiunque.
Dopo qualche anno, la gente sembrava avere dimenticato il suo nome; lei aveva smesso anche di essere “la nipote della Ines” e per tutti era diventata Elena. O la bella Elena.
– Ma io non son mica tanto bella, scherzava lei versando caffè, tagliando fette di torta, scodellando zuppe.
Abitudinari come pochi, gli abitanti del paese sapevano che la bella Elena serviva la colazione dalle 7 alle 10 e ogni mattina sembrava che in quella stanzetta si affollasse l’intero paese per bearsi di quei dolci sfornati da poche ore. La torta al cioccolato, con le scagliette minute e dure che si sciolgono fra lingua e palato, la torta al limone, fresca e acidula e la crostata, autentico miracolo di sapore.
Il pranzo: dieci coperti appena, la fila degli aspiranti nei giorni di zuppa, così come in quello della pasta tirata a mano, densa di sughi dall’aroma paradisiaco.
Un giorno, alla porta de La Bella Elena, comparve un foresto. Era un ometto che camminava con la testa un po’ incassata fra le spalle e che faceva pensare ad una tartaruga; i capelli grigi gli scendevano sul collo e la cosa che più colpiva di lui era il gran naso sgraziato e gli occhi lievemente infossati.
Aveva un’eleganza desueta: giacca e cravatta, che stonavano quasi in quell’ambiente paesano e informale.
L’uomo, con voce cortese e incerta, le chiese se c’era posto per il pranzo e lei lo fece accomodare vicino alla mensola dello scindapsus. L’uomo si accomodò al tavolo, di legno grezzo, abbellito da una tovaglia blu e da un piccolo mazzo di margherite.
– Il menu del giorno è fisso, spiegò lei mentre lo osservava, pensando che forse non era poi vecchio come le era sembrato, ma che poteva avere solo una decina di anni più di lei.
– E oggi il menu che dice? Chiese lui regalandole un sorriso timido che gli fece scoprire, sotto le labbra nascoste dalla barba, una fila di denti irregolari e candidi.
– Oggi il menu dice zuppa di farro con zucchine e spinaci, crocchette di biete al forno con salsa di parmigiano e verdure grigliate, budino al cioccolato. Fatto in casa, si intende.
– Allora il menu dice bene, commentò lui con un secondo, rapido sorriso.
Meno di dieci minuti e il pranzo era in tavola.
Alla fine del pasto, l’uomo pagò soddisfatto e le disse se fosse possibile prenotare tutti i pranzi delle settimane a seguire, dal lunedì al venerdì.
Lei annuì.
Da quel giorno, l’uomo prese la nuova abitudine con precisione e regolarità. Arrivava a mezzogiorno e mezzo in punto, entrava, si soffermava un istante sulla soglia e la cercava con lo sguardo, le sorrideva e si accomodava al solito posto.
– E oggi il menu che dice?
– Oggi il menu dice dice pasta al forno al pesto, fagiolini e carciofi, tartare di manzo alla crema di senape e crostata alle more.
– Allora il menu dice bene, era l’invariabile risposta dell’uomo. L’unica che lei si sarebbe aspettata.
Con il passare delle settimane e poi dei mesi, lei apprese che lui veniva da lontano e lontano aveva una moglie e forse dei figli.
Era arrivato al paese per lavoro e si sarebbe fermato per molto, molto tempo.
Un giorno il cameratesco tu prese il posto del formale lei, mentre la pausa di lui si dilatava fino all’orario di chiusura pomeridiana.
Quando la loro conoscenza non fu più troppo recente, lui, educatamente le chiese di poter visitare il suo giardino: amava i fiori e le spiegò i segreti degli innesti per arricchire il suo piccolo roseto.
Lei si era abituata alla presenza di quell’ometto discreto e gentile e oramai, quando lui si faceva sulla soglia, lo sguardo di lei era già là ad attenderlo da qualche minuto.
Lo sguardo di lei diceva: sei arrivato, finalmente, ti aspettavo.
Lo sguardo di lui rispondeva sempre: lo so. E io per te sono venuto.
Le loro bocche invece formulavano saluti rituali.
Nessuno dei clienti se ne accorse, ma lentamente lei prese a modulare il menu in base alle preferenze del suo commensale favorito, a volte regalandogli piatti che gli erano noti, a volte inventando qualcosa per il gusto di stupirlo, a volte esaudendo qualche esplicita richiesta.
Gli avventori de La Bella Elena si erano presto abituati alla presenza del foresto e nessuno aveva nulla da ridire sul fatto che lui rimanesse anche dopo la fine del pasto, fino alla chiusura pomeridiana, o sul fatto che gli piacesse chiacchierare con lei nel piccolo giardino fiorito.
Era passato più di un anno quando lui, un giovedì di un marzo più caldo e profumato del solito, non si presentò all’appuntamento quotidiano.
Lei lo aspettò fino al momento della chiusura pomeridiana e quando capì che per quel giorno non si sarebbe fatto vedere, ritirò la porzione di zuppa di legumi, lo stracotto al vino rosso e la panna cotta al latte di mandorla, coprendoli con un tovagliolo.
Lui non si presentò l’indomani e nemmeno la settimana seguente e neppure nei mesi a seguire.
Lei, dopo, non riuscì a ricordare in quale momento, dopo molto tempo, smise di fissare la porta con l’attesa negli occhi e nel cuore, ma da allora cessò di far sedere i clienti al tavolo che gli aveva riservato per mesi e mesi.
Erano passati forse dieci anni e La Bella Elena funzionava con regolarità come dal primo giorno di apertura, quando l’uomo, alle mezzogiorno e trenta in punto, si presentò alla soglia.
Al suo solito, si fermò per un istante a cercare la figura di lei e quando inciampò nel suo sguardo, le sorrise.
Lei, senza dire una parola, lo fece accomodare al suo tavolo, abbellito quel giorno da una tovaglia rossa e da un mazzo di tulipani.
Era invecchiato: gli anni gli avevano lasciato tracce scure sul viso, i capelli da grigi erano diventati candidi. Ancora più curvo e sempre più simile a una vecchia tartaruga di terra.
– E oggi il menu che dice? Chiese lui con la stessa voce dolce e gentile di un tempo. Lei non aprì bocca e sparì in cucina.
Ne uscì dopo qualche minuto, portando un grande vassoio in legno. Sopra, insieme alla caraffa del vino e al bicchiere, c’erano tre piatti.
Con gesti lenti, lei apparecchiò la tavola e gli servì la zuppa di legumi, lo stracotto al vino rosso e la panna cotta al latte di mandorla che lo aspettavano da più di dieci anni.
©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)
© Foto Pixabay