Ho chiesto una frase a Barbara Garlaschelli. Lei, il Capo di Sdiario, la scrittrice grazie alla quale è possibile tutto questo, mi ha offerto queste parole:
Guardava il cielo e pensava: “Ora è davvero finita”. Strano come i fatti più gravi della sua vita richiedessero parole così semplici.
Mentre scrivevo il pezzo ho ascoltato in loop “Habits (Stay High)/Hippie Sabotage Remix”, di Tove Lo. Una trentatreina di volte.
COSE DA SALVARE
(da una frase di Barbara Garlaschelli)
Erano arrivati proprio all’ultimo momento. Gli altri passeggeri avevano già imbarcato i bagagli. Il loro check in scivolò via in un attimo.
Aspettarono la chiamata con gli occhi nascosti da grandi lenti scure. Senza parlare mai. Seduti.
Un anziano, di fronte a loro, tossì. Un bambino canticchiò la sigla di un cartoon mentre la madre cercava qualcosa nel bagaglio a mano.
«This is the sad story of a man and his chest…» sentirono dire da una ragazza dagli occhi d’argento e dai denti di perla. Parlava al cellulare. Rideva, ma aveva sonno.
Non salvarono niente.
Poi la voce elettronica chiamò l’imbarco. Si mossero, lei per prima, lui subito dietro. Salirono.
Una volta l’uno accanto all’altra si diedero la mano. Lei abbandonò la testa sulla spalla di Lui.
«Mi fa male la pancia», disse.
Lui guardò fuori. Di nuovo all’altezza dell’ala. Ogni volta che aveva volato in quel posto si era sentito mancare di qualcosa.
All’accensione dei motori, il bambino che prima canticchiava si mise a piangere. L’assistente di volo diede istruzioni. Di nuovo, non salvarono niente.
«Dammi ancora tempo, non sono pronta…», disse Lei con gli occhi chiusi.
Davanti a loro, una donna magra e abbronzata si passò una mano tra i capelli. Aveva le dita coperte da anelli molto appariscenti e una minuscola mezzaluna tatuata sul polso.
«Non è facile, lo sai…»
Allacciarono le cinture.
Squillò il cellulare di Lei. Lo prese stupita dalla tasca della giacca e chiuse subito la chiamata. Sul display, per un attimo, erano comparsi il nome Vittorio e un volto sorridente.
Squillò di nuovo. E Lei di nuovo riattaccò. Sempre Vittorio, stesso volto.
«Perché mi chiama?», disse con un filo di voce. Poi spense il telefono e tornò con la testa sulla spalla di Lui.
Una breve manovra sulla pista. L’aereo accelerò.
Lui si voltò verso di Lei e le sfiorò i capelli con le labbra. Sapevano di pulito. Lo stesso profumo di due notti prima.
Decollarono. Il bambino smise di piangere. La ragazza dagli occhi d’argento e dai denti di perla andò all’ultima pagina del depliant della compagnia aerea. C’era un cruciverba.
Six across: Symbol of København. Mermaid.
«Non si vede la terra, sotto», disse Lui, occhi fissi sull’ala.
«Tu l’hai spento il cellulare?», disse Lei.
Lui guardò il cielo, striato di bianco e di riverberi rosa. “Ora è davvero finita”, pensò. E si sorprese a pensare a quanto fosse strano che i fatti più gravi della sua vita richiedessero sempre parole così semplici. Tipo “Hai gli occhi belli…”, una sera d’agosto.
«No, non l’ho spento…», disse.
«Perché non lo spegni?»
La luce delle cinture di sicurezza si spostò dal rosso al verde. L’uomo con la barba bianca e la testa pelata sbadigliò e poi guardò la donna al suo fianco: «C’est une goutte d’eau dans la mer…» disse sorridendo.
«Non ce l’ho…»
«E dove l’hai lasciato?»
L’assistente di volo versò un’aranciata in un bicchiere di plastica mostrando denti bianchissimi. L’alone di sudore che macchiava la giacca blu sotto le ascelle le dava un’aria sofferente. Versò anche un caffè. Poi un’altra aranciata.
«Sul tavolo della cucina, accanto al vaso verde…», disse Lui.
«Tu non hai un vaso…», iniziò, ma la frase le morì in gola.
Si tolse gli occhiali scuri, pallida e tremante. Lui la guardò da dietro le lenti.
«Hai gli occhi belli…», le disse.
© Alessandro Morbidelli, 2015