E dei caduti che facciamo?
Perché sono morti?
Io non saprei rispondere.
Né mi pare che gli altri lo sappiano.
Forse lo sanno unicamente i morti e
soltanto per loro la guerra è davvero finita.
Cesare Pavese, La casa in collina
Pietro Manni.
Quando Irma lo vide il suo cuore perse più di un battito.
Era ormai a una decina di metri da lui e si fermò di colpo.
E se l’avesse riconosciuta? Impossibile, erano passati troppi anni. Eppure lei lo aveva riconosciuto. O sì, ma era diverso. Lo aveva potuto osservare bene, per giorni e giorni si era impressa nella memoria quella faccia dai tratti arroganti. E quella cicatrice a forma di elle rovesciata, proprio sullo zigomo destro… Sì, lo avrebbe riconosciuto anche se fossero passati mille anni, anche se fosse invecchiato più di quanto non era invecchiato, anche se fosse diventato pelato e senza denti. Lo avrebbe riconosciuto. Sempre.
Mentre per lui, adesso lei era solo una donnetta tra tante. Una faccia tra mille facce, una donna dal viso rugoso, dal naso sottile e dai capelli bianchi raccolti in una crocchia. Un corpo sottile con due lunghe, flaccide gambe che una volta erano state tra le sue cose più belle.
Lo teneva d’occhio mentre fingeva di controllare il prezzo di una gonna. La depose sul banco e continuò a rovistare tra il mucchio senza guardare
L’uomo si era spostato al furgone dei formaggi. Stava guardando la merce e indicava al commesso qualcosa. Lo seguì.
Era ferma alle sue spalle adesso. Se avesse allungato una mano avrebbe potuto toccarlo. E se avesse avuto un coltello avrebbe potuto ammazzarlo.
Tentava di respirare con calma e di pensare. Ma non ci riuscì. Non era in grado di formulare un pensiero coerente.
Era lì, in piedi alle spalle di quell’essere senza poter fare niente se non ascoltare solamente la sua voce nasale che ordinava due etti di crescenza.
Pensa, Irma, pensa!
«Mi scusi.» L’uomo si era girato di colpo e le aveva pestato un piede.
Irma sentì la bocca asciugarsi di botto. Gli occhi scuri dell’uomo le scivolarono sopra, come fosse fatta di vetro. Le fece un insipido sorrisetto mentre già lo sguardo viaggiava in un’altra direzione e si allontanò.
Lei restò con gli occhi inchiodati sul cartellino del prezzo di una forma di grana.
«Desidera?» La voce la scosse.
Non rispose. Sgusciò rapida in mezzo alla fila che si era formata alle sue spalle e si fermò.
Svegliati donna, o lo perderai di nuovo.
Aveva trovato una soluzione. Lo avrebbe seguito. Lo avrebbe seguito anche in capo al mondo. Iniziò una breve corsa. Dopo alcuni metri un dolore al petto la fece rallentare.
Non ora.
Si fermò un istante, aspettando che la fitta passasse.
Non poteva venirle un colpo proprio adesso! Riprese a camminare spedita cercando di respirare lenta.
Svoltò l’angolo. L’uomo era immobile alla fermata del tram.
Cercò di assumere un’aria naturale e si avviò anche lei nella stessa direzione. Si fermò a qualche metro da lui, restandogli un poco alle spalle per poterlo osservare meglio.
Non era cambiato molto dall’ultima volta che lo aveva visto in quell’aula di tribunale, mentre processavano alcuni degli uomini della Muti – quelli che non erano riusciti a scappare o a salvarsi dai partigiani -, in mezzo alla gente che immobile e muta, fissava gli imputati, uno dopo l’altro. E tra gli imputati, c’era anche lui. Non aveva più l’espressione baldanzosa che gli aveva conosciuto prima del processo e se ne stava in piedi con gli occhi bassi mentre il Pubblico Ministero interrogava, parlava, invocava la “verità”.
Lui ascoltava impassibile. Sembrava immune a tutto l’orrore che veniva evocato tra quelle mura altissime. Non aveva mai guardato in faccia la gente nell’aula, non aveva battuto ciglio quando i testimoni avevano cominciato a raccontare.
I metodi utilizzati durante gli interrogatori erano molti: la vittima, con la forza, veniva adagiata orizzontalmente su uno sgabello, afferrata da un lato per i capelli e dall’altro per i piedi, oppure curvata a ponte col busto e la testa rovesciati all’indietro, le gambe piegate in basso e percossa con pugni, calci, colpi di bastone in tutto quanto il corpo, e se cadeva, veniva rimessa nella stessa posizione per essere colpita di nuovo e di nuovo.
La vittima veniva picchiata con uno strumento a forma di clava terminante in una palla di piombo.
La vittima era costretta a poggiare le mani a palmo in giù sul pavimento che venivano calpestate con scarpe chiodate.
La vittima veniva sottoposta ad iniezioni di scopolamina che paralizzavano temporaneamente parti del corpo.
La vittima veniva più e più volte colpita con la canna dei moschetti.
Alla vittima venivano strappate le unghie.
Rotti i tessuti dell’ano.
Stretti i testicoli nei cassetti dei tavoli.
Mezzi adoperati più frequentemente: sacchetti di sabbia; nerbi di bue; scudisci; bastoni foderati di cuoio a forma di clava…
Irma aveva ascoltato, cercando di porre tra sé e le parole che le arrivavano, uno schermo che l’aiutasse a sopravvivere al dolore. A un certo punto, ricordava di aver vacillato. Si era guardata intorno alla disperata ricerca di un po’ di conforto da parte di qualcuno, ma aveva incontrato solo occhi pieni di lacrime e orrore, visi stravolti dal dolore, bocche contratte. Ognuno di loro affondava nel proprio inferno privato e non ci sarebbero state né parole di conforto né atti di pietà.
Tra gli imputati, facce ottuse, cariche di livore e paura. Nessuno di loro aveva accettato di riconoscersi alcuna responsabilità. Degli uomini che gridavano pochi mesi prima “Ce ne freghiamo della galera! Ce ne freghiamo della brutta morte!” erano rimasti solo alcuni fantasmi che chiedevano la perizia psichiatrica.
Sapeva che non sarebbe mai riuscita a dimenticare, ma non immaginava che il dolore potesse tornare così intenso.
Guardò l’uomo passare il sacchetto da una mano all’altra e preparasi a salire sul tram che stava arrivando.
Irma ricordò come rispondeva alle domande della pubblica accusa. Usava frasi brevi e semplici. Soprattutto vaghe.
Era stato tutto un “Non ricordo”, “No, non è possibile”, “No, non c’ero”.
Per tutto il tempo in cui era stata in quell’aula lo aveva fissato per potersi stampare nel cervello ogni ruga, ogni capello, ogni linea sottile di quel viso allora giovane. Di tutti i criminali che si era vista sfilare davanti, lui era quello a cui aveva giurato odio eterno.
Sentire l’elenco delle torture, dei luoghi dove gli arrestati venivano rinchiusi era stato doloroso, ma ascoltare ciò che avevano fatto ad Antonio era stato annichilente.
Rivedeva tutte quelle facce che si alternavano le une alle altre, le parole degli atti giudiziari, lucide, lontane da alcun cedimento pietistico eppure così terrificanti.
Antonio era stato fermato un giorno di marzo, in una via vicino al centro. Subito trasportato nella sede della Legione, era stato sottoposto a un pesante interrogatorio…
… allo scopo di fargli rivelare i nomi dei compagni della resistenza. Malconcio e sanguinante, veniva alla fine rinchiuso isolato in una cella del secondo piano dove, in seguito alle sevizie e alle percosse subite, decedette nelle prime ore del mattino…
decedette… Irma ricordò il suono aspro di quella parola e le immagini che si trascinava dietro.
Le immagini di lei, del padre e della sorella di Antonio che, il giorno dopo il suo arresto, avevano cominciato un’affannosa e disperata ricerca tra gli uffici della Muti, le autorità tedesche e la chiesa. Tutti davano la stessa evasiva risposta: inviato al servizio obbligatorio.
Lo avevano ritrovato quasi un mese dopo, in un cimiterino a F. Il suo corpo era stato ripescato nell’Adda. Dicevano che Manni fosse l’uomo che lo aveva finito e buttato nel fiume, da un ponte sulla strada che da Milano va a Bergamo.
Era andata con il padre a fare il riconoscimento, lei vedova di diciotto anni incinta di sei mesi.
La ricostruzione di ciò che aveva subito Antonio l’aveva costretta a spalancare la bocca per prendere fiato, per spingere l’aria giù nei polmoni.
Il padre di Antonio aveva allungato la mano un paio di volte, ma non l’aveva toccata, chiuso anche lui in un dolore ottundente.
Un compagno di cella aveva testimoniato: «Antonio diceva di non sapere niente, implorava con le poche forze rimaste che lo lasciassero stare». Ma loro non lo avevano lasciato stare, anzi avevano chiesto al dottore di rianimarlo con un’iniezione, per poter continuare l’interrogatorio.
Il massacro.
«È conciato da buttar via ma non parla» avevano detto.
Non aveva parlato.
Era morto.
L’uomo salì sul tram con movimenti agili e lei lo seguì. Continuava a non sentire alcun dolore alle gambe, ma il fiato andava e veniva come una ventola difettosa.
L’uomo restò in piedi accanto alla porta d’uscita e lei si fermò alle sue spalle.
Non aveva ancora pensato a ciò che avrebbe dovuto fare. Sentiva che, per adesso, la cosa importante era sapere dove lui abitava, poi avrebbe cominciato a ragionare.
Si mosse e Irma con lui. Scese quando lo fece lui e continuò a seguirlo a breve distanza.
Era sicura che non si fosse accorto della sua presenza. Perché avrebbe dovuto? Erano trascorsi decenni dall’ultima volta che si erano visti e lui, allora, aveva altro a cui pensare, non certo a una ragazza di diciotto anni con il pancione e il viso distrutto dal dolore. Decine di persone lo avevano fissato con quella stessa espressione e lui nemmeno le aveva guardate.
E risentiva di nuovo le parole della sentenza. Le risentiva come se fossero appena state pronunciate:
«La Corte dichiara Manni Pietro colpevole di: sequestro di persone continuato; violenza privata continuata con armi; lesioni volontarie con sevizie particolarmente efferate…» e poi la fine: «Assolve Manni Pietro dall’imputazione di concorso nell’omicidio in persona di Giusti Antonio per insufficienza di prove».
Assolve assolve assolve assolve…
Giusti Antonio, di anni venti, era morto di botte, buttato in un fiume come un vestito vecchio, e alla fine dimenticato, e Pietro Manni le stava camminando davanti, in salute, dopo aver a lungo vissuto.
Irma guardava fissa davanti a sé. Non sentiva il rumore dei motori, né le voci della gente, non vedeva né vetrine, né alberi, né bambini. Il suo cervello lottava disperatamente per non perdersi nei ricordi. Non c’era tempo, non ora. Ora ciò che contava era non perderlo di vista.
Improvvisamente l’uomo svoltò in un portone.
Attraversò un androne buio e sbucò in un cortile. Irma lo seguì e si fermò solo quando lui scomparve all’interno della scala H. Restò lì alcuni minuti, stordita dalla fatica e dal caldo. Sollevò il viso proprio nel momento in cui, al terzo piano, un braccio spalancava le persiane.
Si allontanò veloce e trovò riparo all’ombra dell’androne.
Sentiva i brividi percorrerle il corpo. Sapeva che non si trattava di freddo.
Si sorprese nel constatare che la gente camminava, rideva, parlava come sempre. Come potevano? Ma la sofferenza è un’esperienza indivisibile, lo aveva imparato con gli anni.
Si ritrovò sul marciapiede senza ricordare di essersi lasciata alle spalle l’ androne buio e fresco.
Antonio mio, non finirà mai il dolore, mai.
Un gruppo di bambini che saltavano su e giù con quelle specie di monopattini senza manubrio, le sfrecciarono accanto.
Le lacrime le offuscarono la vista e i bambini si sgranarono su uno sfondo liquido. Sentì dolore dappertutto e il viso giovane di Antonio le balzò davanti agli occhi.
In quel tribunale, mentre la parola assolve riecheggiava ancora tra le pareti, aveva capito che non si muore una volta sola.
Prese il fazzoletto e se lo portò alla bocca, per ricacciare tra i denti l’urlo che le saliva dai polmoni.
Non erano solo le immagini a essere tornate, erano le emozioni, le sensazioni. Persino l’odore di quell’aula giudiziaria, il sudore della gente misto alla paura e alla disperazione.
Il cuore cominciò a batterle nel petto come una farfalla travolta dal vento.
Sentì dita invisibili arrampicarsi dalle viscere e aggrapparsi alla sua gola, cominciando a stringere. Si accasciò a terra.
Assolveassolveassolveassolveassolve…
Non si muore
…assolveassolveassolveassolveassolve…
una volta sola.
Questo racconto non è frutto di solo fantasia ma basato su fatti storici.
Tra i libri consultati: “Breve storia della Resistenza”, Editori Riuniti, 2007
“Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. 8 settembre 1943-25 1945, Einaudi, 2002
“Non preoccuparti che muoio innocente”, Editore Interlinea, 2005
©Barbara Garlaschelli, 2002 (apparso su Micromega).